Secondo gli ultimi dati, in 26 Stati ormai muoiono più bianchi di quanti ne nascono. Si accelera il processo che farà della comunità bianca la prima minoranza Usa. Con conseguenze anche politiche cruciali. Ma nella sindrome d’accerchiamento sfruttata da Trump non rientra la paura dei migranti
«Siamo bianchi e neri, ispanici e asiatici, giovani e vecchi, gay e etero, siamo gli Stati Uniti d’America». L’avete già letta o sentita questa frase? È una di quelle che non mancavano mai nei discorsi del presidente che abitava la Casa Bianca prima di Donald Trump e sull’idea che l’America fosse un calderone di cose diverse ma capaci di stare assieme aveva vinto a spasso due elezioni di seguito.
Poi, appunto, è arrivato The Donald che con un messaggio opposto è riuscito a prendersi tutte le contee dove il messaggio di Obama non era convincente e gli effetti della ripresa economica che si sentivano forti nelle città e sulle coste non sono arrivati. In quelle contee, vive la nuova grande minoranza americana, quella dei bianchi.
I dati pubblicati qualche giorno fa dal Census Bureau segnalano due cose fondamentali: come tutte le democrazie occidentali, gli Stati Uniti nel loro complesso stanno invecchiando – con un età media che in otto anni è passata dai 37,2 ai 38 -. Il Paese è sempre più diverso e negli ultimi otto anni tutti i gruppi etnici sono cresciuti – compresi gli hawaiani e le persone con origini miste – tranne i bianchi che sono calati di un lievissimo 0,02. I bianchi hanno anche l’età media più alta. In 26 Stati i bianchi muoiono più di quanto non nascano. Due anni fa gli Stati così erano 17.
Si tratta di fenomeni noti e in minima parte causati dall’immigrazione: l’unico gruppo che cresce a causa degli ingressi nel Paese sono gli asiatici americani. Eppure, il presidente Usa ha usato proprio l’idea dell’invasione come chiave per conquistare il cuore dei milioni di joe six pack – il lavoratore manuale bianco che al sabato compra sei lattine di birra -.
Le analisi e gli studi approfonditi sulla vittoria di Trump tendono a sottolineare con sempre maggiore frequenza che a trainare la vittoria del costruttore e star dei reality è stata quella che alcuni hanno definito white vulnerability, la vulnerabilità percepita dell’uomo bianco. Otto anni con un presidente nero, il protagonismo degli ispanici in politica, le facce non bianche di tanti Ceo importanti – prendi quello della Microsoft Satya Nadella -, le nuove serie Tv e il cinema: tutto sembra dare l’impressione della scomparsa dell’America delle villette a schiera nei suburbs e della narrazione monocolore nella quale la stragrande maggioranza degli americani bianchi che oggi ha più di 60 anni è cresciuta.
Quella stessa America raccontata da Roseanne, lo show andato in onda dal 1988 al 1997 e ripreso con enorme successo nel 2017. Roseanne è il racconto, appunto, di un’America bianca che non c’è più e che oggi si sente accerchiata. Come la protagonista Roseanne Barr, che ha suicidato la propria carriera, e fatto cancellare lo show, dopo aver paragonato in un tweet l’ex braccio destro di Obama in politica estera Valerie Jarret a una scimmia.
Di questa crisi di identità è un segnale la crisi di eroina e altri oppioidi che sta devastando alcune contee. A differenza della crisi del crack degli anni ’80, questa non devasta i ghetti neri ma la suburbia della classe medio bassa e contribuisce al tasso di mortalità elevato: nel 2016 i morti per overdose sono stati tra i 59mila e i 65mila, più che mai per questa causa, maggiore del numero più alto di morti per Hiv (nel 1995) o per arma da fuoco (1993).
Quattro degli Stati dove la dinamica demografica è quella descritta qui sopra hanno votato Obama nel 2012 e Trump nel 2016. Due di questi, Ohio e Florida, hanno la capacità di far vincere un presidente. Un colpo di coda non destinato a durare: i nuovi dati indicano infatti che il momento in cui i bianchi diventeranno la prima minoranza e non più la maggioranza del Paese si avvicina più in fretta di quanto previsto. Ma questo lo si era detto anche nel 2016 e la verità è che, senza la capacità di portare più persone a votare, i democratici possono ancora perdere un paio di elezioni se i bianchi di alcuni Stati continuano a votare repubblicano come già fanno.
Ma ora guardiamo a un altro dato potenzialmente in contraddizione con la storia della white vulnerability: tre sondaggi sulla politica di separazione delle famiglie migranti intrapresa dall’amministrazione Trump la giudicano negativamente. E fin qui c’è il buon cuore dell’americano medio. Il dato più sorprendente è che, secondo Gallup, il 75% degli americani ritiene che l’immigrazione sia un fenomeno positivo e i repubblicani lo pensano nel 65% dei casi. Gli americani ritengono anche che l’immigrazione sia uno dei temi cruciali di cui discutere, uno dei problemi del Paese (in questo caso anche il Pew Research Center ottiene risultati simili). La preoccupazione è sia quella dei repubblicani che rispondono negativamente al sondaggio Gallup che dei milioni di ispanici e liberal di ogni provenienza che guardano con orrore alle politiche di Trump.
L’America cambia ma probabilmente non così tanto come temono alcuni segmenti della popolazione bianca: la capacità di assimilare cose che vengono da lontano e americanizzarle è un tratto caratteristico del Paese e basta guardare alle giovani famiglie di softwaristi indiani che si aggirano per il New Jersey per farsene un’idea.
Poi c’è una certezza che aiuta a spiegare la apparente contraddizione tra il dato dei bianchi che votano Trump e il parere positivo sull’immigrazione: quando si risponde a un sondaggio si usa il cervello, quando si tira la leva della macchina elettorale, molto spesso, si usa la pancia.
@minomazz
Secondo gli ultimi dati, in 26 Stati ormai muoiono più bianchi di quanti ne nascono. Si accelera il processo che farà della comunità bianca la prima minoranza Usa. Con conseguenze anche politiche cruciali. Ma nella sindrome d’accerchiamento sfruttata da Trump non rientra la paura dei migranti
«Siamo bianchi e neri, ispanici e asiatici, giovani e vecchi, gay e etero, siamo gli Stati Uniti d’America». L’avete già letta o sentita questa frase? È una di quelle che non mancavano mai nei discorsi del presidente che abitava la Casa Bianca prima di Donald Trump e sull’idea che l’America fosse un calderone di cose diverse ma capaci di stare assieme aveva vinto a spasso due elezioni di seguito.