Gli Schiavi del clic
Una nuova forma di schiavitù si nasconde nel digitale: persone sottopagate revisionano le attività automatiche delle big tech
La sala da pranzo della villa di Thomas Jefferson a Monticello, Virginia, aveva una caratteristica a dir poco incredibile. Montavivande, botole, porte erano automatiche e permettevano agli ospiti di partecipare al pranzo senza nessun intervento umano. Si trattava però di un meccanismo che di automatico aveva ben poco. La schiavitù non era stata abolita ma semplicemente nascosta per muovere apparecchiature meccaniche e rendere autonomo ciò che in verità non lo era. Con un racconto che arriva dal passato, l’autore del libro Schiavi del Clic, Antonio Casilli, introduce una nuova forma di schiavitù digitale, nascosta agli occhi degli utenti, per far sembrare processi digitali, piattaforme e l’intelligenza artificiale più automatizzati di quanto in realtà non lo siano. Da Uber a Foodora, da Amazon Mechanical Turk fino a Facebook o Snapchat, figure sconosciute e non specializzate sono necessarie per svolgere mansioni di valutazione, misurazione, correzione, filtraggio, interpretazione di scelte compiute da processi semi automatizzati.
Prima che gli errori possano manifestarsi agli occhi dei clienti. In smart working da sempre, milioni di “schiavi del clic” sono schiavi e volontari allo stesso tempo. Revisionando come “schiavi”, per poche decine di dollari, le attività automatiche delle big tech e aziende nel mondo digitale e, fornendo contestualmente, “come utenti”, recensioni e dati in modo gratuito, consegnano un messaggio diverso dal sogno o incubo, di una piena automazione del lavoro umano. Gli esseri umani sono oggi più necessari che mai per far funzionare, agli occhi degli utenti, gli algoritmi di intelligenza artificiale. Il libro del professore, del Télécom di Parigi, si chiude con un invito non semplice di ridefinizione dei termini d’uso e di servizio delle piattaforme stesse, verso una nuova forma di contratto che preveda il riconoscimento del valore economico del lavoro degli utenti. Una sorta di “reddito sociale digitale”, finanziato dalle piattaforme stesse, che possa fungere da fonte di introiti affinché la promessa dell’intelligenza artificiale non possa mai essere smentita.
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