
Un disastro naturale ha portato la pace e, per ora almeno, un po’ di futuro.
“Prima dello tsunami uscire di sera era pericoloso, non passava giorno senza uno scontro tra i militari e i ribelli del GAM, si sentivano sempre degli spari”, spiega Ayi, pescatore e portavoce della comunità dei pescatori di Banda Aceh. I guerriglieri del Movimento per l’Aceh Libero (GAM) miravano ad ottenere l’indipendenza della provincia di Aceh o, addirittura, dell’Isola di Sumatra intera.
Porta di accesso dell’Islam, approdo anche per gli invasori olandesi nel 1800, secondo i militanti del GAM, Aceh meritava di più di essere una provincia alla periferia di un paese – l’Indonesia – che è poi un arcipelago di migliaia di isole con quasi altrettante etnie. Il conflitto, a tratti feroce, è proseguito per almeno 30 anni.
Ayi perse la sua nave nello tsunami, ora ne possiede un’altra, e una seconda è in cantiere. L’onda colossale del 26 dicembre del 2004, provocata dal mega-terremoto di magnitudine 9.3, ha inghiottito 270.000 anime e distrutto 15.000 imbarcazioni. Ma ha spazzato via anche il conflitto. La catastrofe ha colpito tutti: ribelli e gente comune. Ha messo in ginocchio una regione già allo stremo, isolata da decine di anni di conflitto.
La catastrofe ha colpito tutti: ribelli e gente comune. Ha messo in ginocchio una regione già allo stremo, isolata da decine di anni di conflitto. Ora i militanti hanno consegnato le armi e si sono uniti per la ricostruzione. Secondo gli esperti, come Katja Brundiers della Arizona State University, esperta di sviluppo sostenibile, lo tsunami “è stata una fonte di opportunità. Ha rotto l’inerzia di anni di conflitto, attriti, ingiustizie e ha offerto l’occasione per ripartire”. Dopo il disastro naturale, secondo la Brundiers, società provate si trovano di fronte alla chance di cambiare.
La ripartenza di Banda Aceh è avvenuta anche grazie al supporto internazionale. Katja spiega che spesso “per cogliere le opportunità ci vuole un aiuto esterno“.
Dopo il disastro, la comunità internazionale ha messo a disposizione un multi-donor fund di 654 milioni di dollari per la ricostruzione. Sono nuovi l’ospedale, l’aeroporto, le strade, le scuole. Ma la novità è anche sociale. C’è, per esempio, l’immigrazione: “Ora ci sono ristoranti balinesi, javanesi, malesi; la sera i bar si popolano, c’è ottimismo”, dice Togu Santoso, urbanista indonesiano.
Ottimista è il venditore in un chiosco di bibite e souvenir presso un monumento allo tsunami. Era un militante GAM. L’ex ribelle mostra fiero una foto in divisa militare e dice: “Ora va meglio, finalmente ho un buon business”. Il suo è uno small business, come lo definirebbero gli economisti: un riparo in lamiera, la vendita di mestoli di legno e qualche bibita. L’onda spazzò in un attimo 104.000 small business come il suo. Il GAM però non è scomparso; tutt’altro, si è trasformato in un partito politico. Potente. Il governatore di Aceh appartiene al GAM.
Lentamente la legge islamica si sta inasprendo, dopo l’iniziale apertura post disastro. Del resto, secondo i fedeli, maggioritari nella provincia, lo tsunami sarebbe stato un segnale di Dio.
La domanda ora è: adesso che i fondi internazionali sono finiti, Aceh è più sicura di prima? E poi: scienza e tecnologia hanno fornito i mezzi per giungere preparati al prossimo appuntamento con il disastro?
La gente è ottimista, o forse piuttosto fatalista. “Allah ci ha punito per i nostri peccati, non accadrà un’altra volta, e se accadrà, questo è il volere di Allah”, spiega Burdin, una signora che gestisce un baretto al mercato dei pescatori. Da un lato la religione ha permesso una più rapida cicatrizzazione del trauma. Dall’altro però, per qualcuno cercare di mitigare il rischio è anche sfidare Dio.
Magari è così, intanto la scienza ha sviluppato strumenti di allerta che possono avvertire la popolazione in caso di tsunami. Un sistema complesso di geofoni, boe e comunicazioni satellitari dovrebbe avvisare la popolazione del pericolo in pochi minuti attraverso radio, televisione, Twitter, Facebook, e sms. Anche se, alla prova di alcuni falsi allarmi degli ultimi anni, la risposta della tecnologia talvolta ha fallito. Come nel 2011, quando le sirene per l’evacuazione non vennero attivate malgrado ci fosse un allarme di tsunami. Un errore tecnico.
Il frutto di dieci anni di studi è che “adesso il mondo conosce il problema degli tsunami”, spiega Khairul Munadi, direttore dello Tsunami and Disaster Mitigation Research Centre. “Abbiamo imparato moltissimo. Per esempio come percepire i segnali precursori che anticipano uno tsunami“.
Ora la scienza, la conoscenza della mitigazione del rischio, si trova di fronte alla questione successiva: come fare affinché le nozioni acquisite non vengano dimenticate nei prossimi dieci, cento anni? “
Nel 1907 ci fu un evento simile, lo abbiamo ritrovato negli archivi e nella memoria tramandata da alcune comunità”, dice Munadi. “Tsunami come questi avvengono raramente, e come dimenticammo quello del 1907, potremmo dimenticare questo”.
Dimenticare significa preparare la strada al disastro. Questa è la lezione: costruire capacità e conoscenza è importante quanto trovare la strategia per tramandarla alle future generazioni. È una priorità condivisa, per il momento, sia dall’austera regia del partito islamico del GAM, sia dagli esperti del mondo scientifico. Se la collaborazione sopravviverà lo scorrere del tempo è tutto da vedere.
Un disastro naturale ha portato la pace e, per ora almeno, un po’ di futuro.