A Barcellona ha colpito il jihadismo o il salafismo? Era un gruppo organizzato o un lupo solitario e la rivendicazione dell’Isis/Daesh è stata opportunistica? La causa sta nell’intervento in Iraq e Siria o altrove?
Di chiaro c’è l’obiettivo: Las Ramblas, l’ombelico di una città e di una regione, Barcellona e Catalogna, meta di quasi 9 milioni dì turisti in soli 5 mesi – il 24% di tutti quelli arrivati in Spagna. Barcellona è giovane, aperta, cosmopolita e piena di musulmani che l’hanno scelta come casa, molti forse proprio per questo. In poche parole, è l’antitesi dell’islamismo fondamentalista.
L’attentato era atteso da anni, come si leggeva in ogni relazione dei servizi della sicurezza e dell’intelligence spagnoli e catalani. Non c’è accordo invece sul vari temi critici per la lotta al terrosimo islamista e, soprattutto, a quello “low-cost”. Il dibattito è aperto, in Spagna, come in Francia e altri paesi occidentali.
Le implicazioni delle risposte sono importanti per rendere efficace la lotta, per esempio concentrando gli sforzi sulle reti organizzate e i canali di finanziamento o sulle cellule dormienti e i lupi solitari, o sulle moschee o internet.
L’attentato alle Ramblas era difficile da evitare. In tutta la zona la presenza delle forze di sicurezza è massiccia da tempo. Il traffico privato è vietato nelle Ramblas da qualche anno ma, nella zona più commerciale della città, non si può bloccare quello commerciale. È così che il furgone killer si è immesso nella zona prima di salire sul marciapiede centrale.
La Spagna come obiettivo.
Dopo il brutale risveglio con 10 bombe e 192 morti a Madrid nel 2010, l’attività del Ministero degli Interni, della Guardia Civil, della Policia Nacional, del Centro dell’intelligence e dei Mossos de Esquadra a Barcellona è andata crescendo con l’aumento del rischio. Secondo i loro dati, le minacce di Daesh e Al Qaeda sono raddoppiate rispetto al 2015, quando il livello di allerta è stato portato a 4 su 5.
In Spagna, la Catalogna è la regione più a rischio.
Solo l’anno scorso, le menzioni jihadiste alla Spagna sono state quasi 50, anche in spagnolo: parlano di Andalusia (al Andalus), Cordoba, Valencia (Xativa), Toledo, Ceuta e Melilla. Sulla rivista An-Naba si delira sulla “decadenza di Al Andalus” e il necessario “intervento degli almoravidi contro i cristiani”. In un video del cyberesercito del Califfato si minaccia di conquistare Parigi, Roma… e la Spagna, che non ha un passato coloniale pesante come quello della Francia ma è intervenuta in Iraq e Siria.
In un recente manifesto per il reclutamento si legge “Un lupo, un soldato dell’Isis” davanti a otto bandiere: di Regno Unito, Usa, Russia, Germania, Francia, Belgio, Ue e Spagna.
Più di 1000 persone e 500 telefoni stanno sotto i radar di più di 3000 agenti, infiltrati, giudici e analisti, con nuovi 600 in arrivo solo in funzione anti-jihad. Dal 2007 ci sono stati 120 deportati, 700 arresti e 270 imprigionati per “proselitismo o fanatismo islamista” grazie a modifiche alla legislazione.
Tuttavia, stando alle spiegazioni di esperti e funzionari, la sfida che pongono i lupi solitari o i piccoli gruppi organizzati con armi a basso costo che non permettono una prevenzione soddisfacente, come a Barcellona dopo Nizza e Berlino, è raggelante.
Si sapeva che sarebbe stato Barcellona e non Madrid l’obiettivo primario, dicono gli esperti, perché tutte le cifre del terrorismo in Spagna si moltiplicano in Catalogna – la base di partenza per due attentatori dell’11 settembre, Ata e Binallshibh, in un luogo molto vicino a dove ieri è saltata una casa dove dei terroristi fabbricavano esplosivi.
Di tutti i condannati per attività jihadiste in Spagna, il 33,3% è stato fermato in Catalogna, che ospita il 26% di tutta la popolazione di origine pakistana o maghrebina della Spagna. Il 16% dei musulmani di Spagna è nella provincia di Barcellona, scrive Fernando Reinares, capo ricercatore sul terrorismo del Real Instituto Elcano.
Altri, come l’ex funzionario della Difesa francese, Pierre Canossa, in un dibattito, hanno definito la Catalogna “sensibile” perché è la regione con la più alta presenza di salafiti, il movimento politico-religioso sunnita più fondamentalista e radicale nell’interpretazione del Corano. Pare che per questo motivo Fbi e Cia abbiano al consolato Usa di Barcellona da tempo una base d’intelligence cruciale per il Mediterraneo.
Il Molenbeek spagnolo?
Il Raval, il quartiere accanto alla Rambla dell’attentato, è l’area del centro storico dove la concentrazione di persone musulmane è più alta. Il Museo di arte contemporanea di Richard Meier e la Facoltà di architettura convivono con stradine di negozi, kebabberie, internet caffè e abitazioni di famiglie e singoli pachistani o nordafricani. In molte strade, questi gruppi hanno sfollato i vecchi artigiani e le prostitute. Questa dinamica ha incentivato la gentrificazione e nei vecchi appartamentini che gli anziani liberano subentrano giovani e artisti – ed è arrivata la movida. È qui che si è rifugiato l’autore dell’attentato.
Reclutamento: come avviene ora?
Secondo Luis de la Corte, esperto di intelligence e professore all’Università Autonoma di Madrid, la radicalizzazione non avviene più nelle “moschee come vuole lo stereotipo, mentre sono proprio quelli che le frequentano che più la denunciano”. Avviene anche meno su internet che pure diffonde l’informazione e permette l’anonimato, e molto di più tramite rapporti personali. Tuttavia, “che siano più o meno integrate, l’immensa maggioranza delle diaspore musulmane non si radicalizza”.
Josep Lluís Trapero, il capo della Polizia catalana è d’accordo sul fatto che il reclutamento e la “formazione” dei terroristi non abbia a che fare con la moltiplicazione delle moschee e degli oratori salafisti in Catalogna, che sono passate da 60 a 80 in un anno, perché dei 30 arrestati quest’anno nessuno si era radicalizzato in ambiente salafista. Bisogna evitare l’islamofobia, dice parlando a Radio La Vanguardia. A suo avviso, è su internet che avverrebbe la prima fase della radicalizzazione, anche degli spagnoli convertiti, come si è visto nelle 10 operazioni del 2017, tra cui una massiccia ad aprile anticipata per il forte rischio che poneva.
Yves Roucaute, professore di Scienze Politiche all’Università Paris Nanterre, ha più volte ricordato che “sbagliare diagnosi è un errore sostanziale” e occorre ricordare che i musulmani democratici, che sono quelli che fanno le leggi nelle moschee sono i nostri migliori alleati”. Anche lui ritiene che il “terrorismo low-cost” cui stiamo assistendo non si combatta “contrastando il salafismo, bensì l’ideologia jihadista, che non è la stessa cosa. Qui si ha a che fare con persone fanatizzate, non con terroristi formati militarmente”.
Esperti come Roucaute, Trapero e de la Corte concordano che contro questi tipo di attacchi non si può fare molto altro se non operazioni preventive e d’intelligence.
Se un evento così terribile può offrire una lezione, è l’importanza di mitigarne gli effetti con una buona organizzazione.
I Mossos catalani e l’amministrazione della città hanno mostrato di essere pronti. Come dal nulla, nella città e fin nella periferia è spuntato subito dopo l’attentato un altissimo numero di agenti anche in borghese subito operativi. Le ambulanze e gli ospedali erano pronti. I piani Gabia e Cronos sono stati eseguiti pare senza intoppi. In meno di un’ora le strade di tutto il centro storico erano state svuotate e fino a notte inoltrata i tassisti hanno fatto la spola gratuitamente portando via le persone che attendevano ordinatamente in lunghe code dopo essere rimaste chiuse per ore nei negozi e nei ristoranti. Alcuni catalani hanno protestato recentemente contro il caos del turismo, ma ieri hanno saputo gestirlo. Già questa mattina il centro sembrava normale e i turisti avevano persino ripreso a passeggiare sulle Ramblas.
@GuiomarParada