Cinque arresti, di cinque persone considerate responsabili e connesse a quello che ormai in Cina viene definito «attentato», ovvero lo scontro dell’auto che lunedì scorso a Pechino in piazza Tiananmen ha ucciso cinque persone, ferendone trentotto. Husajan Wuxur, Gulnar Tuhtiniyaz, Yusup Umarniyaz, Bujanat Abdukadir e Yusup Ahmat, avrebbero già ammesso le prime responsabilità per l’attentato e sono state catturate con l’aiuto del governo del Xinjiang, un luogo che da oggi ricomincerà ad essere iper sorvegliato e controllato, mentre per i fermati, in caso di processo, niente sembra poter evitare una pena capitale.
Secondo la polizia cinese all’interno dell’auto che si è schiantata nei pressi del ritratto di Mao, c’erano invece Usmen Hasan, la madre, Kuwanhan Reyim e la moglie, Gulkiz Gini. Tutti e tre sono morti e per quello che è stato fatto trapelare dalle autorità a bordo della macchina sarebbe stata trovata una tanica di benzina e materiale di propaganda religiosa.
Questo è quanto sappiamo dello strambo incidente accaduto sulla Tiananmen, un luogo simbolico come pochi a Pechino e in Cina e che ha dimostrato il paradosso di uno stato che tenta di controllare tutto, ma che finisce per essere colpito nel luogo più controllato del mondo.
La famiglia che si immola, si martirizza, può essere riconosciuta come un modus operandi, ma il collegamento che conta è quello tra le persone all’interno dell’auto ed eventuali uighuri che sono stati uccisi duranti gli scontri in Xinjiang o condannati a morte dal governo di Pechino. Sempre che la polizia di Pechino stia raccontando la verità.

La sensazione infatti è che Pechino stia spingendo – prendendo la palla al balzo – per tornare a collegare l’indipendentismo uighuro con Al Quaeda; tentativo già effettuato in precedenza e «speso» già in occasioni internazionali, come ad esempio durante le questioni legate alle sanzioni alla Siria. Dopo la pubblicazione del Libro Bianco sul Tibet, la Cina quindi insiste nella propria propaganda rispetto a quelli che sono i suoi due problemi interni principali, Tibet e Xinjiang.
Pechino, sostengono i cinesi, ha portato ricchezza e pace; gli abitanti locali, le minoranze etniche, ricambiano con forme di resistenza terroristiche. E per il Xinjiang i tempi saranno sempre duri, considerato il fatto che già si registra da tempo una dura forma di controllo sociale. Una «guerra a bassa intensità» negata da Pechino ed etichettata, in senso univoco, come «terrorismo» solo in casi come quello verificatosi a Pechino.
Cinque arresti, di cinque persone considerate responsabili e connesse a quello che ormai in Cina viene definito «attentato», ovvero lo scontro dell’auto che lunedì scorso a Pechino in piazza Tiananmen ha ucciso cinque persone, ferendone trentotto. Husajan Wuxur, Gulnar Tuhtiniyaz, Yusup Umarniyaz, Bujanat Abdukadir e Yusup Ahmat, avrebbero già ammesso le prime responsabilità per l’attentato e sono state catturate con l’aiuto del governo del Xinjiang, un luogo che da oggi ricomincerà ad essere iper sorvegliato e controllato, mentre per i fermati, in caso di processo, niente sembra poter evitare una pena capitale.