Le trattative di pace tra il governo thailandese e i guerriglieri musulmani del sud del Paese si sono bruscamente interrotte. Gli incontri tra i rappresentanti delle autorità e quelli di Mara Patani – una sigla nata nell’ottobre del 2014 che racchiude sei gruppi separatisti – si sono conclusi con un nulla di fatto mentre, nelle aree di confine con la Malesia, le violenze non si fermano. E provocano ancora paura, morti e feriti.
L’origine della lotta separatista
Siamo al confine con la Malesia, nelle provincie di Pattani, Narathiwat, Yala, Songkhla e Satun: qui vivono circa due milioni di persone. L’etnia musulmana dei Malay, che ha una propria cultura, una propria tradizione e anche una propria lingua, lo Yawi, molto simile al malese, rivendica la propria autonomia. Armi in pugno, ormai da decenni. Il conflitto, considerato a «bassa intensità» dagli esperti, ha infatti origini antiche. Queste provincie un tempo formavano il sultanato di Pattani, poi annesso al Regno del Siam all’inizio del Novecento. Ed è proprio per questo che i gruppi armati richiedono di staccarsi dal governo di Bangkok.
Le violenze sono aumentate nel 2004
Le violenze hanno subito un significativo incremento nel 2004, dopo quello che viene ricordato come il «Massacro di Tak Bai». In quell’occasione la repressione delle forze di sicurezza thailandesi ha provocato la morte di oltre settanta persone. Era il 25 ottobre di dodici anni fa, quando nel piccolo villaggio della provincia di Narathiwat, la polizia ha iniziato a sparare per disperdere una manifestazione di circa tre mila persone scese in strada per chiedere la liberazione di sei uomini accusati di aver fornito armi a gruppi fondamentalisti islamici. Da quel giorno le violenze non si sono mai fermate e hanno provocato fino ad oggi la morte di quasi settemila persone.
Più di venti i gruppi armati attivi
La guerriglia separatista è divisa in vari gruppi e ognuno opera autonomamente. Secondo il governo thailandese attualmente sarebbero attivi circa venti organizzazioni. Sei di queste si sono riunite nel contenitore Mara Patani, nel 2014, con l’obiettivo di iniziare delle trattative di pace con il governo centrale. A questa sigla hanno aderito il National Revolutionary Front (BRN), fondato nel 1960 e ora diviso in tre diverse fazioni, l’Islamic Mujahidin Movement of Patani (GMPI), fondato nel 1995, l’Islamic Liberation Front of Patani (BIPP), conosciuto anche con il nome Bersatu che, in lingua malese, significa Uniti. Al fronte dei ribelli si sono unite anche altre tre organizzazioni legate al Patani United Liberation Organization (PULO), nato nel 1968. Ma Mara Patani non può parlare a nome di tutte le componenti dell’area e per questo, nonostante i colloqui di pace, gli attentati e gli scontri a fuoco non si sono fermati neanche in questi ultimi giorni e hanno provocato – dal febbraio 2016 ad oggi – trentacinque morti.
Il fallimento delle trattative di pace
Ma la causa del fallimento delle trattative in corso non sono da additare solo alle violenze in atto. Il governo thailandese, infatti, ha complicato di non poco la situazione dando l’impressione di non voler raggiungere un accordo. Awang Jabal, leader di Mara Patani, in una conferenza che si era svolta alla fine dello scorso agosto a Kuala Lumpur aveva chiesto alle autorità thailandesi di inserire «i negoziati di pace sul programma nazionale» in modo da non farli interrompere «come è stato fatto dopo la crisi politica del 2014 che ha portato al colpo di stato in Thailandia». Ma l’attuale premier, il generale Prayuth Chan-ocha, come risposta, non solo ha dichiarato le trattative sospese dopo l’ultimo incontro avvenuto pochi giorni fa. Ha anche revocato dall’incarico Nakrob Bunbuathong, che era il capo della delegazione dei colloqui iniziati dal governo precedente. L’accusa è chiara: «E’ una persona debole e flessibile verso la controparte». Per questo è meglio farla fuori. Un altro problema è che, ufficialmente, le autorità thailandesi non intendono riconoscere la controparte. «Perché riconoscerli? Incoraggerebbe solo altri gruppi a farsi davanti», ha detto sempre il generale Prayuth Chan-ocha. E ha aggiunto: «E’ stato l’ultimo governo a volere i colloqui di pace, non noi».
In gioco ci sono anche interessi strategici ed economici
La Thailandia è un Paese quasi esclusivamente buddista e in tutti questi anni non ha mai cercato di capire le richieste dell’etnia Malay. Per il governo, infatti, le violenze e la richiesta di autonomia sarebbero solo da collegare alla criminalità comune. Ma in realtà, oltre a non corrispondere alla verità, Bangkok ha tutti gli interessi a far si che il sud ribelle rimanga sotto il proprio controllo. Nell’Istmo di Kra, al confine con la Malesia, potrebbe nascere un nuovo sbocco tra Oceano Indiano e Pacifico. Da anni, infatti, si parla del progetto del «Canale di Kra», che permetterebbe di collegare il Golfo di Thailandia all’Oceano Indiano, formando una valida alternativa allo stretto di Malacca.
Le trattative di pace tra il governo thailandese e i guerriglieri musulmani del sud del Paese si sono bruscamente interrotte. Gli incontri tra i rappresentanti delle autorità e quelli di Mara Patani – una sigla nata nell’ottobre del 2014 che racchiude sei gruppi separatisti – si sono conclusi con un nulla di fatto mentre, nelle aree di confine con la Malesia, le violenze non si fermano. E provocano ancora paura, morti e feriti.