C’era una volta Mardin. Una città di pietra fortificata arroccata a mille metri d’altezza su un fianco di montagna roccioso che s’affaccia sulle valli intemporali dell’antica Mesopotamia.

Una città del sole i cui raggi penetrano tra le strette stradine creando giochi d’ombre e di luce. Incollate le une alle altre, le case, le moschee, le chiese ed i cortili interni, dall’alto, sembrano piccole scatole che s’abbarbicano silenziose sulla parete scoscesa fino in cima alla montagna, come a voler raggiungere il sole.
Del resto Mardin ha sempre avuto un rapporto speciale con il sole. Nel XVI secolo un quartiere della città era soprannominato Shamsiyé (dall’arabo “shams” che significa sole).
Gli shamsi, adoratori del sole, propagavano, come gli yazidi, un antichissimo culto che fu represso con veemenza dall’Impero Ottomano. Gli adepti, che parlavano armeno, furono costretti ad integrare le comunità cristiane assiro-caldee. Forse da questi adoratori del sole, che vivevano in maniera pacifica seguendo i ritmi della natura, discendeva la famiglia di Nazaret Manoogian, il protagonista dell’ultimo film di Fatih Akin “The Cut”, presentato in anteprima a Parigi al Forum des Images in presenza del regista e degli attori.
Siamo nel primo decennio del Novecento e Mardin pullula di vita, di stormi d’uccelli che disegnano piroette al tramonto, di artigiani, di falegnami, di fabbri che battono il ferro caldo. Uno di questi è Nazaret. Un uomo semplice e pio dedito al lavoro e alla cura della sua ridente famiglia. Il tempo sembra scorrere lento, la famiglia è felice ed unita. Ma questa felicità è effimera.
Scoppia infatti la Prima Guerra Mondiale e un giorno a Mardin arrivano i gendarmi turchi per prelevare uomini per la leva militare. Da quel giorno Nazaret e la sua famiglia si ritrovano trascinati via nel fiume in piena della storia che spazza via tutta la comunità armena della città di Mardin (circa 8.000 persone secondo le fonti storiche) nel corso di quello che è considerato il primo grande genocidio di epoca moderna. Tra il dicembre del 1914 ed il febbraio del 1915 il governo dei Giovani Turchi, volendo propagare la propria ideologia panturchista fondata sull’omogeneità etnica e religiosa, decide di sopprimere tutta la popolazione armena, una popolazione cristiana che guardava all’occidente e per questo accusata di favorire il nemico in ottica militare. Vengono creati speciali battaglioni irregolari, detti tchété, in cui militano molti detenuti comuni appositamente liberati e con l’aiuto di consiglieri tedeschi, alleati della Turchia all’interno del primo conflitto mondiale, vengono deportate centinaia di migliaia di persone (le vittime, secondo alcuni fonti storiche, saranno oltre un milione e mezzo).

Nazaret viene trascinato dalla storia ma riesce a salvarsi. Vede gli orrori della guerra, subisce la deportazione, le marce forzate nel deserto dove cadono e muoiono vecchi, donne e bambini, s’incammina lungo la via della speranza che lo porta ad Aleppo dove si rifugia una parte della comunità armena in fuga dalla guerra. Nazaret si salva ma è provato, ha perso fiducia nel suo Dio, ha perso fiducia nell’uomo ma ha un solo ed unico scopo che anima le sue membra spossate dalle privazioni ed il suo spirito rabbuiato dagli orrori della guerra: ritrovare le sue figlie gemelle. E così inizia una vera e propria odissea tra Turchia, Siria, Libano ed anche oltre il Mediterraneo, in terre esotiche e lontane. Ritrovare le sue figlie significa forse ritrovare i frammenti perduti di una vita fatta di sole, di rondini e del cielo azzurro di Mardin che non rivedrà mai più.
«The Cut» è un intenso affresco girato con maestrìa che verte sulla memoria, sul viaggio e sullo sradicamento.
Con una serie di accorgimenti stilistici (la moltiplicazione delle strade, l’attraversamento del deserto e della neve, i binari del treno, la musica ciclica) il film racconta l’orrore e le lacerazioni della guerra, l’incomprensione, la discriminazione culturale e razziale (ci sono diversi richiami all’Olocausto ma anche spaventosi paralleli con la realtà della Siria di oggi, i massacri dell’ISIS contro Curdi e Yazidi) ed il paradosso di un popolo pacifico che in breve tempo diventa da amico in nemico ed è costretto ad abbandonare la propria terra.
«The Cut» è anche e soprattutto un film-documentario in cui un cineasta d’origine turca parla apertamente di genocidio armeno, argomento ancora tabù per le autorità turche.
Parlarne significa ancora oggi violare l’articolo 301 del codice penale turco e del resto illustri scrittori ne furono vittime, tra cui il premio Nobel Orhan Pamuk, la scrittrice Elif Shafak ed il giornalista turco-armeno Hrant Dink. Ma in realtà è proprio di quest’ultimo che Fatih Akin voleva parlare.
La sua idea iniziale era quella infatti di fare un film sul giornalista turco-armeno Dink, fondatore di Agos, assassinato il 19 Gennaio nel 2007 ad Istanbul davanti alla redazione del quotidiano che aveva contribuito a fondare.
Un film dunque sulla storia di un grande giornalista che con il suo mestiere ha contribuito a fare luce sulla realtà storica del genocidio armeno e sul conseguente tabù imposto dai diversi governi di Turchia. Ma minacce da parte dei Lupi Grigi e pressioni politiche varie gli hanno fatto cambiare idea e da qui è nata l’idea della storia di Nazaret Manoogian che Fatih Akin voleva comunque fosse incarnata da un attore turco.
Anche qui però ha dovuto cedere il passo in quanto nessun attore turco ha accettato per paura di rappresaglie da parte dell’estrema destra turca.
Di cosa la Turchia ha ancora paura? In fondo il film di Akin non è soltanto un film di denuncia, anche del fanatismo, è piuttosto un tentativo di dialogo, poetico, anche con coloro che ancora oggi negano imperterriti il genocidio armeno e infangano la memoria di grandi uomini come Hrant Dink.
C’era una volta Mardin. Una città di pietra fortificata arroccata a mille metri d’altezza su un fianco di montagna roccioso che s’affaccia sulle valli intemporali dell’antica Mesopotamia.