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Timbuktu di Abderrahmane Sissako: confini nomadi della Storia e del deserto


Una gazzella corre nel deserto mentre una serie di spari provengono da un fuoristrada che la insegue. I colpi dei fucili rompono il silenzio allo stesso modo con cui la bandiera nera con il sigillo issata sulla jeep squarcia le sfumature ocra delle dune. L'effetto è lo stesso, un senso di intrusione violenta, uno squarcio che ferisce a fondo una natura che si trasforma da utopia di pace in peccato da punire. Un trauma che non uccide, almeno non subito. “Sfiniscila ma non ucciderla” ordina uno degli uomini a bordo del mezzo.

Per lo spettatore il film inizia come un trauma che lo getta direttamente all'interno di un mondo che gli è alieno. Si tratta di Timbuktu, la pellicola di Abderrahmane Sissako, regista originario della Mauritania, candidato all'Oscar come miglior film straniero e già vincitore del Premio della Giuria Ecumenica al Festival di Cannes.

Il film narra le vicende di Kidane, un pastore che insieme alla sua famiglia è accampato poco distante dalla città di Timbuktu, in Mali, dove da gli islamisti radicali hanno recentemente imposto la sharia, vietando tra le altre cose la musica e il gioco del calcio. Kidane, credente e forte della sua morale tradizionale, resta a guardare illudendosi di potersi sottrarre ai cambiamenti della storia umana e convinto che il destino sia già stato scritto da Dio e che nessuno abbia il potere di sottrarsi ad esso.

Ma è proprio a partire da un contrasto interno al mondo della tradizione - quello tra pescatori e pastori, uniti e divisi dal fiume che garantisce loro la sopravvivenza - che Kidane è costretto a prendere coscienza che la Storia esiste e non può restarne fuori. Dopo che un pescatore ha ucciso una delle sue mucche, Kidane assassina a sua volta l'uomo durante una colluttazione. Ma a differenza che in passato – un tempo che illusoriamente appariva cristallizzato e immobile come il deserto che immobile non è - la giustizia ora è quella delle corti islamiche. L'effetto è quello di un disincanto immediato, di una perdita di armonia che appariva immutabile.

Kidane è costretto a uscire dall'isolamento e a fare i conti con quello che lo spettatore ha già visto, nelle scene precedenti o nelle immagini che tutti i giorni scorrono davanti ai numerosi schermi che ci circondano. Fare i conti con la Storia. Qui Sissako dà prova della sua grandezza autoriale mostrando che i singoli granelli del deserto che compone il nostro tempo non sono per nulla tutti uguali come appaiono a distanza ma hanno mille sfumature. E così rimaniamo sconcertati di fronte alla fragilità delle nostre convinzioni sbriciolate dalle contraddizioni interne un mondo tanto complesso quanto troppo spesso interpretato in chiave di una semplificazione che tende inevitabilmente alla banalizzazione.

La Timbuktu che vediamo è un confine tanto esteso quanto mobile, come il deserto che avanza e si ritrae e che in questi movimenti lascia emergere e ricopre porzioni di Essere di cui ci eravamo dimenticati o che avevamo, consciamente o inconsciamente, ricoperto. In questo mondo siamo prima di tutto sordi alle parole degli altri, i personaggi parlano lingue diverse – arabo, francese, dialetti nomadi – e si riferiscono a una tradizione, quella islamica, che, come il fiume, sembra tanto condivisa quanto causa di odio, fruibile di interpretazioni irrimediabilmente contrastanti. Ha senso proibire la musica anche quando si tratta di un inno ad Allah e al suo profeta, si chiedono gli integralisti. In che modo si esporta la parola di Dio se poi si entra con gli anfibi e le armi spianate in una moschea, domanda l'imam locale agli uomini che intendono imporre la sharia alla – credente - comunità. Sembra il luogo dove si realizza il paradosso lacaniano per cui ogni rinuncia al godimento provoca un godimento della rinuncia.

La risposta di Sissako a queste spinose domande sta nell'onestà: un'immagine poetica e malinconica, a tratti rassegnata, come la gazzella che corre impaurita nel deserto e che sembra non avere altra fine che lo sfinimento. Una differente soluzione è però contemplata: il coraggio e il rifiuto, rappresentato della moglie di Kidane che corre nella direzione opposta, quella dei fucili.

Avremo anche noi il coraggio di affrontare la complessità di questo mondo e la forza morale di rifiutare - prima di tutto - i limiti che ci impediscono di comprenderlo, o ci abbandoneremo a una fuga verso il nulla. Sono domande come queste che fanno di Timbuktu un esempio di grande cinema.

 

 

Una gazzella corre nel deserto mentre una serie di spari provengono da un fuoristrada che la insegue. I colpi dei fucili rompono il silenzio allo stesso modo con cui la bandiera nera con il sigillo issata sulla jeep squarcia le sfumature ocra delle dune. L’effetto è lo stesso, un senso di intrusione violenta, uno squarcio che ferisce a fondo una natura che si trasforma da utopia di pace in peccato da punire. Un trauma che non uccide, almeno non subito. “Sfiniscila ma non ucciderla” ordina uno degli uomini a bordo del mezzo.

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