Continua l’impasse sulla riforma del sistema europeo di asilo, ormai al collasso. Tante le proposte, ma reggono i veti del blocco orientale. Ma il tempo stringe e la presidenza bulgara che inizia oggi potrebbe essere l’ultima occasione
Bruxelles – Da troppo tempo un dossier continua a rimbalzare dai tavoli delle istituzioni europee a quelli delle delegazioni nazionali di stanza a Bruxelles. Si tratta della riforma del sistema europeo di asilo, il cui rinvio a data da destinarsi è ormai diventato un déjà-vu politico abbastanza frequente.
Quello di Dublino è un meccanismo ormai al collasso, avvizzito dalla clausola di primo ingresso che rende automaticamente responsabile della domanda d’asilo l’autorità dello Stato membro in cui il migrante mette piede per la prima volta. Il sistema non ha retto neanche alla crisi migratoria del biennio 2014-15, creando ulteriori storture come la figura del “dublinante”, il richiedente asilo che ha provato a fare domanda di protezione in un Paese diverso da quello di primo ingresso e che viene rispedito al mittente, in una specie di bug di sistema della libera circolazione all’interno dello spazio europeo.
Il confronto sulla riforma di Dublino riflette anche una contesa più ampia, quasi carsica nel suo apparire e riapparire con diversi nomi nella storia recente dell’integrazione europea. Una dicotomia che oggi ha assunto i connotati di una frattura geopolitica tra un Est e un Ovest interno all’Ue, ma che è diretta erede della contrapposizione atavica nata insieme al grande allargamento: quella tra nuovi e vecchi membri, tra chi persegue le aspirazioni delle origini e chi mantiene una concezione più utilitaristica di Europa. I Paesi del gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria) hanno scelto il campo della politica migratoria comune per sfidare apertamente il vecchio ordine europeo dei fondatori.
Tante proposte, nessun accordo
Con il sistema di Dublino sotto accusa, la Commissione ha proposto nel maggio 2016 un pacchetto di riforma meno ambizioso di quanto alcuni osservatori si aspettassero, introducendo un sistema di ripartizione obbligatoria dei richiedenti asilo attivabile solo una volta superata una soglia critica del 150% rispetto a un benchmark di flussi sopportabili da uno Stato membro. Anche così mitigato, il meccanismo di quote obbligatorie ricalca quello schema di ricollocamenti pensato da Bruxelles per gestire l’enorme pressione dell’estate 2015 e che non è mai andato a genio ai Paesi dell’Est, fino a portarli allo scontro aperto con la Commissione. Proprio per il mancato rispetto di quegli obblighi l’Esecutivo europeo ha recentemente deferito Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca alla Corte di Giustizia Ue.
Mettere d’accordo gli altri Stati membri sulla riforma del sistema d’asilo era la priorità di Malta durante la sua presidenza di turno del Consiglio a inizio 2017. La Valletta è riuscita a strappare maggiori poteri per l’Easo, l’agenzia Ue che monitora l’applicazione degli standard d’asilo, ma non a far accettare il suo compromesso su Dublino che prevedeva la possibilità di partecipare alla condivisione degli oneri in materia di politica migratoria comune con modalità differenti dall’accoglienza dei richiedenti asilo.
Il concetto di solidarietà “differenziata” piace parecchio ai V4, che non a caso a margine dell’ultimo Consiglio hanno incontrato separatamente Gentiloni offrendo 35 milioni freschi per rimpinguare il quasi esausto fondo per l’Africa. Anche la successiva presidenza del Consiglio estone è partita dal compromesso maltese, proponendo un impegno degli altri Stati membri su base volontaria una volta superato il 90% di sopportazione dei flussi e una forma di solidarietà obbligatoria che scatta superata la soglia del 150%, ma non in modo automatico. Servirebbe infatti una decisione del Consiglio a maggioranza per dare il via alla redistribuzione vincolante dei richiedenti asilo.
L’upgrade della proposta maltese continua a non convincere i 28 e resta da vedere se la prossima presidenza bulgara continuerà a puntarci. Ha le idee più chiare l’altro co-decisore del procedimento legislativo Ue: a novembre il Parlamento europeo ha proposto una modifica coraggiosa con un meccanismo di quote obbligatorie automatiche senza soglie minime e con un sistema sanzionatorio che prevede anche il taglio di fondi strutturali. Una proposta che difficilmente vedrà luce ma che sposta il confronto anche sulla rinegoziazione dei termini di bilancio 2021-2027, altro terreno su cui si gioca la delicata sfida con l’Est.
La “profezia” di Tusk
La tensione è definitivamente detonata durante l’ultimo Consiglio europeo di dicembre, veicolata da alcune uscite marcatamente politiche del presidente Donald Tusk. Già a ottobre l’ex premier polacco aveva affermato che non ci sarebbe stato futuro per il criterio delle quote di migranti. Ha poi rincarato la dose nella tradizionale lettera di invito ai leader europei prima del vertice di dicembre, in cui aveva definito il sistema di redistribuzione obbligatoria altamente divisivo e inefficace.
Ne è nato uno scontro istituzionale tra Consiglio e Commissione ma anche tra gli stessi capi di Stato e di governo schieratisi a favore o contro Tusk. La presa di posizione del presidente del Consiglio ha avuto però il merito di rendere palese un problema prima strisciante, costringendo i protagonisti a giocare a carte scoperte.
La mancanza di consenso potrebbe portare a una decisione finale presa a maggioranza qualificata. È un rischio che nessuno vuole correre, dal momento che la mancanza di unanimità sarebbe il preludio al mancato rispetto dei futuri obblighi, come dimostra proprio il caso dello schema di ricollocamenti. Ed è il motivo per cui Commissione e Stati membri proveranno fino alla fine a trovare una soluzione condivisa, lasciando solo sullo sfondo la possibilità residuale di ricorrere al voto a maggioranza. In quel caso la questione diventerebbe definitivamente divisiva, rendendo la dichiarazione di Tusk non più solo provocatoria ma anche profetica.
Oltre Visegrád
Il rinvio a giugno 2018 della riforma di Dublino non è stato voluto dai soli Paesi dell’Est. Si è deciso di aspettare gli esiti delle urne di Italia e Ungheria, due Paesi in cui la questione migratoria è considerata argomento elettorale. Ma la stessa Germania vorrebbe sedersi al tavolo delle trattative in una posizione più forte e possibilmente con un governo insediato.
Di certo i V4 non sembrano più così isolati e il loro fronte potrebbe allargarsi, diventando sempre più mitteleuropeo con l’appoggio del premier austriaco Kurz. Ma la riforma del sistema comune d’asilo non è spinosa solo per l’opposizione ideologica del blocco orientale: rivedere Dublino vuol dire anche rimettere mano a regolamenti e sistemi nazionali e di norma sono Paesi come Francia e Germania a essere più restii alla modifica dei propri ordinamenti. Dovranno essere limati molti dettagli tecnici come la definizione di una lista di Stati terzi sicuri, la determinazione dello status d’asilo e dei diritti dei minori non accompagnati, oltre che un database biometrico per migranti e richiedenti asilo.
Da Berlaymont continuano ad arrivare segnali di ottimismo e il commissario Avramopoulos si aspetta di chiudere la partita in 3-4 mesi. Il tempo stringe e la presidenza bulgara sembra davvero essere l’ultima fermata, anche considerando che dopo toccherà proprio all’Austria, che potrebbe ulteriormente annacquare possibili slanci della riforma. Ma soprattutto più si avvicina alla scadenza del mandato della Commissione e più sarà difficile portare a casa qualcosa di politicamente rilevante.
@gerardofortuna
Continua l’impasse sulla riforma del sistema europeo di asilo, ormai al collasso. Tante le proposte, ma reggono i veti del blocco orientale. Ma il tempo stringe e la presidenza bulgara che inizia oggi potrebbe essere l’ultima occasione