
Egitto, Emirati e Arabia Saudita rischiano di trasformare la Libia in un terreno di scontro ‘’per conto terzi’’.
È difficile individuare all’orizzonte, oggi, una soluzione pratica e immediata per la Libia. Con il probabile fallimento della mediazione delle Nazioni Unite, sembrano tramontare le speranze alimentate dalla Conferenza di Madrid dello scorso 17 settembre.
Il problema, adesso, è quello di fermare la carneficina di uno scontro sempre più cruento, cercando di ristabilire i termini minimi quantomeno per riportare gli interlocutori al tavolo negoziale. In quest’ottica, deve essere chiaro all’Occidente un punto essenziale. La legittimazione delle forze politiche libiche deve transitare attraverso l’individuazione di un consenso sul terreno, e non sul mero calcolo espresso da ingenue quanto inopportune valutazioni circa la natura del problema.
Non si tratta di operare una scelta a favore del laicismo e della democrazia contro l’islamismo violento e l’autoritarismo – come alcune delle componenti in lotta vorrebbero far credere alle opinioni pubbliche occidentali – ma di arrestare una lotta tra milizie che esprimono istanze di natura clanica. Nell’ambito delle quali si è insinuato in modo sempre più pervicace l’islamismo militante, che tuttavia è di natura complessa ed eterogenea, e non genericamente riconducibile alle sole categorie del radicalismo e, peggio ancora, dello jihadismo. Ognuna di queste forze cerca di legittimarsi come espressione della volontà popolare e soprattutto come fautrice dello spirito rivoluzionario che ha abbattuto il precedente regime di Muammar Gheddafi, accusando l’altra di intenzioni restauratrici o di complicità con lo jihadismo.
Ma il più evidente problema è quello di un quadro politico oggi diviso tra i sostenitori del cosiddetto governo di Tobruk, presieduto da Abdullah al-Thani e risultante dalle elezioni dello scorso giugno, e quello di Tripoli, presieduto da Omar al-Hassi e risultante dalla precedente Assemblea transitoria.
Nella confusione che regna in Libia, la Corte Suprema libica lo scorso novembre ha dichiarato nulle le elezioni di giugno, sconfessando in tal modo la legittimità del governo di Tobruk. Prontamente sostenuto dalla gran parte dei paesi occidentali, interessati a delegittimare il governo di Tripoli.
Ancora una volta, la comunità internazionale ha contribuito ad alimentare i personalismi e i tribalismi che incendiano la Libia, generando una nuova crisi politica che pesa come un macigno sulla stabilità e sulla sicurezza della Libia. Questa contrapposizione ideologica, alimentata largamente anche dal discusso generale Haftar e dai suoi dante causa in Egitto e negli Emirati Arabi Uniti, rischia di far sprofondare il Paese nell’abisso di una guerra civile senza uscita e possibilità di ritorno. Crisi che la comunità internazionale deve impegnarsi a disinnescare, e non alimentare attraverso l’improvvido sostegno elargito ai soli gruppi che ne rappresentano gli interessi.
La contrapposizione ideologica, così come ideata e impostata dal Generale ha l’effetto di radicalizzare lo scontro. Si combatte a Bengasi, a Derna e in molte altre città della costa occidentale, dove si dividono la scena le brigate di Zintan legate ad Haftar e quelle di Misurata, espressione delle alleanze che governano Tripoli.
Le minoranze etniche dei Tebu inoltre – leali a Tobruk – impegnano costantemente le milizie di Misurata nel sud del Paese. Dovesse avverarsi il rischio di un fallimento della mediazione dell’Onu si tornerebbe nel limbo dell’incertezza e della violenza, lasciando pieno spazio alle forze del Parlamento di Tobruk per lanciare la loro offensiva politica sul piano globale, cercando in ogni modo di ottenere il consenso e il riconoscimento della comunità internazionale negando così il verdetto della corte suprema. In assenza di una soluzione politica sul terreno, quindi, i paesi europei e gli Stati Uniti dovrebbero almeno cercare di non alimentare la dimensione clanica dello scontro in atto, evitando di legittimare arbitrariamente una parte a danno dell’altra, e utilizzando la propria capacità politica al contrario per imporre, con maggior energia, un cessate il fuoco e la ricerca di un dialogo politico unitario, ed effettivamente rappresentativo della complessa società libica.
In quest’ottica, infine, devono essere anche riconosciute e fermamente condannate tutte le altre ingerenze esterne alla crisi, l’insieme degli interessi regionali che ruotano intorno alla Libia. Come quelli dell’Egitto, degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita, che rischiano di trasformare la Libia in un terreno di scontro “per conto terzi”. Attori regionali il cui ruolo rischia di allontanare sempre più la stabilità della Libia che richiede processi politici che favoriscano l’inclusione e la rappresentatività delle sue diverse componenti.
Egitto, Emirati e Arabia Saudita rischiano di trasformare la Libia in un terreno di scontro ‘’per conto terzi’’.