Una mini campagna elettorale per allargare il consenso di Trudeau, che ha invece lasciato invariato lo status quo governativo e ha dato un’opportunità al populismo di destra
Perché? Justin Trudeau ha passato tutti i trentasei giorni di campagna elettorale a cercare una risposta a questa domanda, e non l’ha trovata. Sarebbe dovuta essere una risposta trascinante, di quelle che ispirano le persone e le fanno innamorare di un’idea (e inevitabilmente anche di chi l’ha pronunciata); di quelle che generano consenso. Ci ha provato, Trudeau, a parlare di “momento cruciale” per il Canada, a fare paragoni storici con il secondo dopoguerra, a dire che il futuro della nazione dipendeva da quell’elezione anticipata convocata di domenica, il 15 agosto scorso. Gli elettori, però, non gli hanno creduto. Proprio non hanno capito che bisogno c’era di tornare al voto con tanta urgenza – trentasei giorni di campagna è il minimo consentito dalla legge canadese – mentre nel mondo è in corso una pandemia e il Paese affronta la quarta ondata di contagi.
A molti è parso, non a torto, che il Primo Ministro ricercasse soltanto un maggiore potere politico per sé; che puntasse a convertire i consensi ottenuti con la buona gestione della crisi in seggi alla Camera dei comuni. L’obiettivo di Trudeau era esattamente questo, benché non l’abbia mai reso esplicito: liberarsi del Governo di minoranza ottenuto nel 2019, che lo costringeva a collaborare con le altre forze. Un obiettivo perfettamente lecito, ma non uno di quelli che gli elettori amano sentirsi raccontare. Anche perché la necessità di un mandato più forte non era così evidente: il dialogo tra i partiti procedeva bene, l’agenda di Trudeau per la ripresa (fondata sugli aiuti alle famiglie e alle imprese) non era stata limitata o compromessa, il 70% dei canadesi aveva completato il ciclo vaccinale e le previsioni economiche del Fondo monetario internazionale dicevano che nel 2021 la crescita sarà del 6,3%, sopra la media dei Paesi sviluppati. L’impressione, insomma, era che Trudeau avesse convocato questa elezione per lui, più che per il Canada.
Il Governo Trudeau
Le elezioni le ha vinte, alla fine, ma non ha ottenuto quello che voleva: ha lasciato un Governo di minoranza e se ne è ritrovato un altro uguale. La composizione della Camera dei comuni non ha subito modifiche rilevanti: i Liberali di Trudeau hanno 158 seggi (per la maggioranza ne servivano 170), i Conservatori 119, il Blocco del Québec 34, i Nuovi democratici 25 e i Verdi 2. Nessun cambiamento, quindi, nemmeno nella coalizione dei partiti di centro-sinistra che continuerà a portare avanti il piano per la ripresa economica: le priorità immediate saranno l’azione climatica, un programma nazionale per l’assistenza all’infanzia e un pacchetto di misure per ridurre i prezzi delle case; la promessa è realizzare nuovi investimenti per 78 miliardi di dollari canadesi (quasi 53 miliardi di euro) in cinque anni, in aggiunta ai fondi già stanziati. La linea generale dell’esecutivo, comprensibilmente, è rimasta immutata.
Justin Trudeau non è più lo stesso del 2015, quando guidò i Liberali verso il trionfo (184 seggi) trasmettendo ottimismo e speranza (sunny ways). Oggi, complice il lungo periodo di permanenza al potere, non è riuscito a elaborare un messaggio altrettanto efficace: la fase dell’innamoramento con l’elettorato è finita; per molti canadesi ormai non è che un politico come gli altri, e forse anche troppo amante della celebrità. Ma questi “altri” non sono comunque al suo livello e quella del 20 settembre, per quanto amara, è stata pur sempre una vittoria che gli ha consegnato un terzo mandato. Il Partito verde, invece, è stato penalizzato dalle lotte interne. I Nuovi democratici, nonostante l’alto tasso di gradimento del leader Jagmeet Singh, non hanno saputo conquistare gli elettori di sinistra stanchi dei Liberali. I Conservatori – gli unici che potevano aspirare a governare – hanno fatto meglio del previsto, ma il loro programma è risultato a volte un po’ confuso e non ha attecchito nelle grandi aree urbane, quelle che assegnano il maggior numero di seggi.
Il nuovo capo dei Conservatori, Erin O’Toole, ha capito che il partito è condannato se non si libererà della sua aura rurale e ha intrapreso uno spostamento verso il centro su temi come il cambiamento climatico, i diritti civili e il divieto dei fucili d’assalto. L’anno scorso ammiccava alla destra tradizionale, presentandosi come “un vero conservatore blu” (è il colore del partito) e promettendo di “riprendersi il Canada”, stuzzicando la facile nostalgia dei bei tempi andati. Poi però in campagna elettorale ha invertito la direzione, dicendo che “Non siamo il Partito conservatore di vostro nonno” e descrivendolo piuttosto come “una tenda blu”, grande e inclusiva. Nel discorso dopo la sconfitta ha riconosciuto che i Conservatori devono cambiare perché il Canada è cambiato, e peraltro sarà sempre più urbano; ha dichiarato che il passato non è qualcosa su cui soffermarsi, ma da cui imparare per andare avanti. Il rischio è che, nell’aprirsi in cerca di nuovi elettori, il partito perda quelli vecchi e più fidati. La svolta centrista di O’Toole potrebbe ad esempio irritare la provincia dell’Alberta, roccaforte del conservatorismo, dove già un paio d’anni fa il sentimento di alienazione verso le istituzioni federali era coagulato in un movimento separatista extrapartitico chiamato Wexit. Il populismo di destra esiste anche in Canada, incarnato soprattutto nel Partito popolare di Maxime Bernier, un ex-conservatore: non ha ottenuto nessun seggio, ma ha visto crescere i suoi consensi fino quasi al 5% (nel 2019 si fermò all’1,6).
La campagna elettorale
La campagna elettorale è stata breve ma intensa, nel senso peggiore del termine. Trudeau è stato colpito da una manciata di ghiaia al termine di un comizio; un altro raduno è stato cancellato per ragioni di sicurezza: gli arrabbiati sono soprattutto antivaccinisti, contrari alle restrizioni e alla versione canadese del Green Pass. In quei trentasei giorni ne sono emerse tante, di divisioni, anche di quelle che mettono a rischio la tenuta della federazione. In Québec, territorio rilevantissimo per il numero di seggi che assegna, si è insistito molto sull’autonomismo e sulla “diversità” della provincia, francofona in un Paese perlopiù anglofono: in passato ha più volte tentato la strada dell’indipendenza; oggi vuole vedersi riconosciuti più poteri e anche lo status di “nazione” nella costituzione. Trudeau – e non solo lui – tende ad accontentarla perché altrimenti il contraccolpo politico sarebbe forte e l’andamento dei lavori a Ottawa ne risentirebbe, specie in un contesto di governo di minoranza. Così facendo, però, crea precedenti che altre province potrebbero sfruttare per far avanzare i propri interessi particolari. L’Alberta, per esempio, ha detto che “dovrebbe emulare il Québec” per ottenere una riforma vantaggiosa del patto federale.
Pur essendo stata aperta il 15 agosto, il giorno della caduta di Kabul nelle mani dei talebani, in campagna elettorale sono state spese pochissime parole sulla politica estera. È una disattenzione strutturale, e infatti il patto militare Aukus tra Stati Uniti, Australia e Regno Unito – annunciato esattamente un mese dopo – ha colto il Canada di sorpresa, nonostante i profondi legami di sicurezza con quelle tre nazioni. Trudeau ha provato a minimizzare l’importanza dell’accordo, descrivendolo come un modo per vendere sottomarini nucleari a Canberra e dimostrando di non averne compreso il valore strategico nell’Indo-Pacifico, una regione importante per gli interessi commerciali canadesi. Ottawa, a proposito, deve aggiornare la sua politica sulla Cina: i “due Michael” trattenuti per oltre mille giorni saranno anche tornati a casa, ma le problematiche poste dall’ascesa di Pechino non si sono cancellate. Le parole chiave del nuovo approccio cinese del Canada sono quattro: coesistenza, competizione, cooperazione e contestazione. Non resta che aspettare di vederne l’esecuzione pratica. Tra i Governi in attesa, uno dei più interessati è, ovviamente, quello degli Stati Uniti.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
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Una mini campagna elettorale per allargare il consenso di Trudeau, che ha invece lasciato invariato lo status quo governativo e ha dato un’opportunità al populismo di destra