
Donald Trump sarà il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. E, nel caso mantenesse tutte le promesse elettorali, passerebbe alla storia come una delle figure politiche del XXI secolo che ha spento ogni barlume di lotta al cambiamento climatico globale. Il suo negazionismo riguardo alle emissioni di diossido di carbonio come causa del riscaldamento globale ha fatto sussultare la comunità scientifica e parte dell’amministrazione statunitense. Ed è per questo che si deve fare il punto su un argomento che non solo riguarda noi, ma riguarda anche il pianeta che lasceremo ai nostri figli e nipoti.
Partire dai dati è fondamentale per comprendere quanto sia, già ora, grave il problema del riscaldamento globale e della distruzione di ogni speranza di rendere vivibile il nostro pianeta. La National aeronautics and space administration (Nasa) continua a pubblicare senza sosta gli aggiornamenti più significativi di quello che Oxfam e National geographic considerano “il più grande disastro contemporaneo”, capace di produrre guerre, carestie e disuguaglianza sociale. Iniziare coi fatti è quindi cruciale. Secondo l’analisi della Nasa negli ultimi 650,000 anni ci sono stati sette cicli di avanzamento e ritiro dei ghiacci su scala planetaria, con l’ultima glaciazione “finita bruscamente 7,000 anni fa”. Un evento, spiega la Nasa, che “ha segnato l’inizio della civiltà umana”. Da qui, si può iniziare il discorso sugli effetti collegati. Il livello dei mari si è innalzato di circa 17 centimetri, 6.7 pollici, nell’ultimo secolo. Ma secondo la Nasa, gli ultimi dieci anni sono stati la pietra miliare di questo evento: le percentuali di incremento su base annua sono quasi raddoppiate rispetto ai 90 anni precedenti. È questo l’effetto dello scioglimento dei ghiacci dell’Artico e dell’Antartide? Secondo l’agenzia federale statunitense “tutte le evidenze scientifiche conducono in modo inequivocabile a questa conclusione”.
Le temperature, su scala globale stanno aumentando. Perché? Per via delle emissioni di diossido di carbonio, spiega la Nasa. Le anomalie le potete visualizzare nel grafico qui sotto. Per ogni grado in più, ci saranno più problemi per i popoli che vivono su questo pianeta. E non bisogna scomodare Leonardo DiCaprio, che in queste settimane ha presentato il suo documentario “Before the flood”, per comprendere quanto sia grave il problema. Ci ha pensato l’amministrazione americana a fare mea culpa su quanto fatto nell’ultimo secolo di industrializzazione.
Secondo il Gravity recovery and climate experiment (Grace) della Nasa, fra il 2002 e il 2006 le calotte di ghiaccio che ricoprivano la Groenlandia si sono ridotte in maniera sensibile. Di quanto? Fra i 150 e i 250 chilometri cubi per anno. Dipende dalle zone, ma la fascia bassa resta quella dei 150 chilometri cubi di ghiaccio che non ci sono più e non sono stati rimpiazzati da nuovo ghiaccio. Semplicemente, sono scomparsi. In Antartide, il fenomeno è stato simile. In un intervallo temporale analogo a quello della Groenlandia – fra il 2002 e il 2005 – si sono persi circa 152 chilometri cubi di ghiaccio per anno. Come spiega la Nasa, “anche in questo caso si tratta di un fenomeno inarrestabile”. Nei grafici qui sotto, consultabili anche sul sito della Nasa a questo link (http://climate.nasa.gov/vital-signs/land-ice/) possiamo osservare l’evoluzione dei ghiacci polari. E no, non dovete preoccuparvi: i dati sono aggiornati su base mensile. Quindi, quello che vedete è vero.


Il fenomeno non riguarda solo i poli, però. E, come fanno notare i tecnici che seguono il progetto Grace, non è solo riconducibile a un mutamento, naturale, dell’asse terrestre. Le emissioni di anidride carbonica erano e sono ancora oggi il principale colpevole – non indiziato – di questo processo, che sta contribuendo, inoltre, a una progressiva acidificazione degli oceani. Secondo la National oceanic and atmospheric administration (Noaa), l’agenzia federale statunitense per atmosfera e oceani, “non c’è mai stato nella storia dell’umanità un livello così elevato di acidificazione degli oceani”. Un esempio è dato dalle isole Hawaii. Nel grafico qui sotto potete trovare le rilevazioni della Noaa. Dalla Rivoluzione industriale il livello di acidificazione degli oceani è incrementata del 30 per cento. Ma a cosa è dovuto questo processo? Alle emissioni di diossido di carbonio e al suo assorbimento dagli oceani. Secondo l’ultimo rapporto dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) l’ammontare di diossido di carbonio assorbito dalla superficie degli oceani è di circa 2 miliardi di tonnellate ogni anno. Non domandatevi, dunque, perché il grafico del Noaa sulle Hawaii presenta una curva così ripida.

Se qualcuno dovesse pensare che il problema è di poco conto per gli europei, è meglio che controlli le analisi nivologiche e glaciologiche del CNR e della Nasa. In particolare, quest’ultima agenzia ha pubblicato sul suo sito le immagini del Cervino, epica montagna tra Italia e Svizzera: una scattata il 16 agosto del 1960, l’altra il 18 agosto del 2005, dieci anni fa. Il risultato potete vederlo qui sotto. E non è il solo caso. Secondo l’ultimo aggiornamento del catasto dei ghiacciai italiani, pubblicato l’anno scorso dall’Intergruppo parlamentare per il clima Globe Italia, negli ultimi 26 anni, cioè dal 1981 al 2015, i ghiacciai delle Alpi centrali hanno perso 2,000 miliardi di litri di acqua. Per fare un paragone, si tratta dell’equivalente di 800mila piscine olimpiche o quattro volte il lago Trasimeno.

E poi veniamo al nuovo presidente americano, Donald Trump. Non è trascorso nemmeno un anno dalla conferenza sul clima COP21 del dicembre 2015, approdata nella sottoscrizione dell’Accordo di Parigi. Al termine di due settimane di lavori, di fatto lo strappo finale dopo un decennio e oltre di bolle di sapone, è stato adottato quello che la Commissione europea ha celebrato come “il primo accordo universale e giuridicamente vincolante sul clima mondiale”. In buona sostanza, i 195 Paesi firmatari si impegnano nel lungo termine a limitare l’aumento medio della temperatura mondiale “ben al di sotto” di 2°C rispetto ai livelli preindustriali. Questo, in un disegno di ampio raggio che pone come pietra angolare la condivisione della necessità di ridurre le emissioni di ogni singola nazione, seppur concedendo un minimo di tolleranza ai Paesi in via di sviluppo. L’Accordo è entrato in vigore il 4 novembre scorso, dopo che 92 Paesi hanno ratificato i rispettivi progetti di messa in sicurezza dell’atmosfera, superando il quorum di almeno 55 nazioni responsabili del 55% delle emissioni, come deciso a Parigi nel 2015. A pesare in misura rilevante sull’effettiva possibilità di rispettare l’agenda sono le scelte di Cina e Stati Uniti, di fatto due giganti energivori – rispettivamente in prima e seconda posizione in quanto a livelli di emissioni –, storicamente riluttanti ad imbrigliare i propri piani di sviluppo ridefinendo in ottica ‘verde’ il mix energetico. In realtà, già a fine ottobre erano emersi alcuni indicatori positivi per voce dell’International Energy Agency (Iea). Nel suo ultimo rapporto, l’Iea sottolinea come a livello globale il totale della potenza elettrica da fonti rinnovabili abbia sorpassato quella prodotta dalle centrali a carbone. Un buon inizio, ma ancora poco da permettere di ammainare la bandiera rossa. A soffiare sulle pale della rimonta verde, hanno contribuito in modo sostanziale anche i cambiamenti innescati dal Clear Power Plan di Barack Obama: emissioni di CO2 ai minimi storici da 25 anni; taglio di un terzo all’utilizzo del carbone rispetto al 2007. Risultato quantificabile non solo nei livelli di particolato, ma anche per l’esempio dato ai Paesi più riluttanti.
L’ebrezza seguita alla santificazione dell’Accordo è durata quattro giorni appena, fino all’elezione di Donald Trump alle presidenziali americane. Nessuno o quasi aveva messo in conto la variabile Trump, la cui vittoria del 9 novembre era quotata da molti quanto la possibile ricostruzione del muro di Berlino, giusto 27 anni dopo la caduta. Ora, mentre la disfatta della Clinton fa già parte della storia, dal buco dell’ozono aperto sopra le nostre teste pende la spada di Damocle brandita dal nuovo inquilino della Casa Bianca. “Il cambiamento climatico è un concetto inventato dai cinesi per impedire all’economia americana di essere competitiva”, tuonava Donald Trump dal pulpito durante la campagna elettorale. Labbra tese, occhi strizzati e mano sollevata con pollice indice uniti a voler rassicurare la folla arringata all’inverosimile. Dalla sua voce e nel sito ufficiale sono uscite promesse chiare agli elettori, a partire dalla volontà di sottrarsi all’Accordo di Parigi. Segue l’intenzione di bloccare “tutti i pagamenti” degli Stati Uniti per il sostegno dei programmi sul riscaldamento globale delle Nazioni Unite, poi smantellare l’Environmental Protection Agency (Epa), quindi l’annullamento delle limitazioni alla produzione di energie fossili, riesumando il progetto del mega oleodotto di Keystone XL, bocciato da Obama nel 2015. Ad affiancare Trump nella definizione del nuovo piano energetico americano sarà Myron Ebell, negazionista del riscaldamento globale, finanziato dalle lobby del carbone, additato dagli ambientalisti di mezzo mondo come “criminale climatico”. Quindi quale sarà l’alternativa all’invenzione cinese? Trivellazioni e, ovviamente, ‘back to coal’, ritorno al carbone. Magari iniettando una buona dose di adrenalina alle centrali del Wyoming – regione carbonifera per eccellenza -, accompagnate negli ultimi otto anni in un lento coma produttivo. I cittadini dello stato sono pronti, del resto da Cheyenne a Sheridan lo spoglio elettorale ha espresso una posizione chiara: da queste parti si crede in Trump e nelle sue promesse elettorali.
Malgrado il tono e i contenuti del programma partorito al civico 725 della 5th Ave di New York, sede della Trump Tower e roccaforte dell’intellighenzia attiva alle spalle del neopresidente, preoccupa il fatto che milioni di cittadini abbiano effettivamente digerito (e votato) una strategia energetica talmente antiquata, da sembrare davvero rivoluzionaria. A conti fatti però, il ritorno all’età del carbone e lo svincolo dagli obblighi in materia ambientale, promessi dal presidente in pectore degli Stati Uniti d’America, sembra tecnicamente irrealizzabile, almeno durante il primo mandato. Essendo legalmente entrato in vigore, quindi vincolante per i Paesi sottoscrittori, l’Accordo di Parigi non permetterà a Washington di retrocedere legalmente in tempi brevi. Servono tre anni almeno prima di poter richiamare l’Articolo 28 dell’intesa sul clima, riuscendo così ad avvalersi del diritto di sfuggire agli obblighi previsti, poi un anno ancora per l’effettiva attuazione della scelta. Parliamo del 2020, anno in cui Trump e i suoi saranno impegnati nella corsa alla rielezione.
Ciononostante, Trump dispone di altri due modi per ottenere lo stesso risultato: svincolarsi in soli 12 mesi dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992, ombrello sotto il quale ricade lo stesso Accordo di Parigi; oppure fare spallucce e ignorare semplicemente l’impegno assunto da Obama, limitandosi a ridefinire le politiche statunitensi su ambiente ed energia, creando un precedente pesantissimo, con il rischio di spazzare via i progressi fatti finora per contrastare a livello globale i cambiamenti climatici.
L’esito del voto americano ha scatenato proteste a tutto quartiere. Da mercoledì scorso, negli Stati Uniti il sole sorge e tramonta oltre una selva di cartelli branditi in aria da chi non vuole arrendersi all’idea di essere rappresentato da Donald Trump. “Trump is toxic”, Trump è tossico, si legge in alcuni degli striscioni esposti nel fitto dei cortei a Houston, New York, Washington e Los Angeles. Un chiaro riferimento alle politiche ambientali promesse in caso di elezione, evenienza quest’ultima avveratasi malgrado i pronostici. Ora, le stesse politiche che in campagna elettorale passavano come provocazioni di un candidato particolarmente zelante, potrebbero essere attuate. Evenienza commentata senza mezzi termini da Jennifer Morgan e Bunny McDiarmid, referenti di Greenpeace, che in sintesi esprimono le posizioni di gran parte dei sostenitori della lotta ai cambiamenti climatici, non solo degli ambientalisti. “Scongiurare la catastrofe climatica è diventato molto difficile, ma non impossibile. Il presidente Donald Trump può essere la più infame e forte minaccia mondiale al clima”, si legge in una dichiarazione congiunta rilasciata attraverso il portale di Greenpeace international.
Nelle ultime settimane prima del voto presidenziale americano non sono state poche le imprese che hanno cercato di porre l’attenzione dei cittadini statunitensi sugli effetti collaterali per l’ambiente di una presidenza targata Trump. Una di queste è stata Patagonia, fondata nel 1973 da Yvon Chouinard e che ha sede a Ventura, California. E una rivista autorevole come Outside ha ricordato quanto sia pericoloso il gioco di ombre che sta facendo Trump con l’anidride carbonica. Da un lato ha cercato di accaparrarsi i voti di quel Middle of Nowhere che per rilanciare la propria economia vuole sfruttare al massimo le risorse naturali del territorio. Dall’altro ha evitato qualunque riferimento alle politiche ambientali su scala globale, tacciandole di essere fandonie in più occasioni.
Nonostante il latente (nemmeno troppo) negazionismo di Trump, il problema delle emissioni di diossido di carbonio resta. Ed è una questione globale. Quello che lascia poco sperare nel futuro è che Peter Thiel, co-fondatore di PayPal insieme a Elon Musk, fondatore di Tesla, e principale sostenitore di Trump nella Silicon Valley, non ritiene che il riscaldamento globale sia una priorità. Considerata l’amicizia fra lui e Musk, paladino delle energie rinnovabili, gli americani si sarebbero attesi uno spirito più consapevole da parte di Thiel, il quale invece ritiene che “chi parla di climate change è uno pseudo-scienziato”. E pensare questo, forse, è il più grande errore che si può commettere. Non solo per noi, ma anche per coloro i quali erediteranno questo pianeta da noi.