La Casa Bianca boccia l’accordo nucleare e annuncia nuove sanzioni ai pasdaran. Ora la parola passa al Congresso. Il presidente punta a sabotare il crescente peso di Teheran, ma così soffia sull’incendio mediorientale. Fa il gioco dei falchi iraniani e fomenta lo scontro con l’Arabia saudita.
“L’Iran Deal deve essere riportato indietro. Teheran l’ha violato e il regime sostiene il terrorismo. Imporremo nuove sanzioni alle Guardie rivoluzionarie, abbiamo una strategia in sei punti. Non permetteremo che abbia l’atomica”. Il presidente americano Donald Trump imprime un nuovo scarto rispetto alla politica estera Usa targata Obama: inizia la sua operazione di sabotaggio dell’accordo sul nucleare e della politica del dialogo con Teheran. Nega la certificazione del Joint Comprehensive Plan of Action raggiunto il 14 luglio 2015 tra i Paesi del gruppo 5+1 (Stati Uniti, Russia, Francia, Cina, Gran Bretagna, più la Germania), l’Ue e l’Iran per la sospensione delle sanzioni imposte da Unione Europea e Nazioni Unite contro la Repubblica islamica, in cambio dell’impegno di Teheran a limitare il suo programma. “L’accordo sul nucleare iraniano ha lanciato un’ancora di salvezza politica ed economica alla dittatura iraniana che ha diffuso distruzione e morte. È un regime fanatico”, ha tagliato corto Trump.
A questo punto la parola passa al Congresso che avrà 60 giorni di tempo per avviare l’iter di ripristino – o meno – delle sanzioni sospese, introdurne altre mirate oppure modificare l’obbligo di certificazione del rispetto iraniano dell’accordo da parte del presidente. Le opzioni de facto sono due: “keep or kill”, mantenere l’accordo oppure ucciderlo nel suo spirito. Ma all’inizio Trump proverà ad “aggiustarne” i termini secondo l’interesse nazionale Usa.
È un’operazione assai pericolosa quella dell’inquilino della Casa Bianca che non sembra avere intenzione di uscire dall’intesa: l’obiettivo è spingere di nuovo l’Iran nel ruolo di “Stato canaglia” in un ipotetico “asse del Male” come ai tempi di G. W. Bush e ciò sconvolgerebbe gli equilibri globali e regionali e aprirebbe un nuovo fronte, favorendo così gli ultraconservatori iraniani. Ma nella logica di Trump la normalizzazione dei rapporti sulla rotta Washington-Teheran, incentivata da Obama sarebbe un “grand bargain” che aumenterebbe il peso geopolitico dell’Iran, innervosendo gli storici alleati Usa, nonché nemici della Repubblica islamica: Arabia Saudita e Israele.
Secondo il presidente degli Stati Uniti, “l’accordo sul nucleare con l’Iran è frutto di una incompetenza mai vista, è il peggiore mai siglato da Washington… un imbarazzo per gli Stati Uniti”. I fatti, finora, dicono il contrario. Secondo l’Ue l’intesa “sta funzionando e l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica l’ha certificato otto volte” [qui il testo completo del JCPOA, Joint Comprehensive Plan of Action]. Lo ribadiscono i recenti numeri snocciolati dall’ambasciata britannica a Washington. Se prima della firma dell’Iran Deal, la Repubblica islamica aveva 19 mila centrifughe in funzione e 8 mila chili di uranio arricchito a basso livello, dopo ha trasferito il 95 per cento dell’uranio, rinunciando a 2/3 delle centrifughe [qui i dati].

Nonostante ciò, Trump continua a sostenere che l’Iran “ha avuto la strada spianata per costruire armi nucleari molto velocemente”. Il presidente punta a far pressione per costringere Teheran e l’Europa a ritornare al tavolo dei negoziati, indebolendo così i benefici economici e strategici ottenuti dalla Repubblica islamica con il ripristino del dialogo con l’Occidente e il ritorno sulla piazza internazionale.
Il cambio di paradigma à la Trump smonta la strategia della distensione iniziata da Obama e distrugge la politica della diplomazia che ha dato spinta all’ala pragmatica e moderata della Repubblica islamica, con il presidente Hassan Rouhani e l’uomo-simbolo dell’Iran Deal, il ministro degli Esteri Javad Zarif. Incarnando il Grande Satana, l’America regge il gioco dei “falchi” iraniani che vogliono tornare all’arricchimento nucleare pre-accordo. E fomenta la retorica del cosiddetto “asse di resistenza antimperialista”che coinvolge e giustifica il regime di Assad in Siria e Hezbollah in Libano. Legittimando così chi vede il confronto con Washington solo in chiave di contenimento da parte iraniana dell’ingerenza Usa in Medioriente. La tensione è destinata a salire anche su scala globale: il Cremlino ha già avvertito Washington, che se gli Usa abbandonano l’Iran Deal ci saranno “sicuramente conseguenze negative”.
Soprattutto, con la costruzione del “nemico” iraniano, Trump infiamma lo scontro tra Riad e Teheran, dando forza alla narrazione che racconta di uno scontro identitario, giocato sul piano della divisione religiosa Sunniti versus Sciiti. E non è un caso che a maggio scorso, mentre gli iraniani riconfermavano alle urne Rouhani per un secondo mandato, il presidente Usa volava in Arabia Saudita per dare sostegno ai leader sauditi e attaccare l’Iran responsabile di “sostenere il terrorismo”. A restare schiacciati da queste logiche politiche sono in primis i civili, devastati dai conflitti per procura che segnano il Medioriente dalla Siria allo Yemen.
Ma sabotare l’Iran Deal significa indirettamente anche fare morire sul nascere i primi tentativi di cooperazione sul fronte dell’antiterrorismo per fronteggiare la minaccia ISIS nella regione. Tutto questo pur di non riconoscere all’Iran lo status di attore geopolitico cruciale e non aggirabile, interessato quindi alla definizione di un equilibrio regionale.
@transit_star
La Casa Bianca boccia l’accordo nucleare e annuncia nuove sanzioni ai pasdaran. Ora la parola passa al Congresso. Il presidente punta a sabotare il crescente peso di Teheran, ma così soffia sull’incendio mediorientale. Fa il gioco dei falchi iraniani e fomenta lo scontro con l’Arabia saudita.