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Trump presidente: le reazioni in Israele


"Il più grande ritorno della storia". Netanyahu non ha mai nascosto di preferire Trump. E il licenziamento del ministro della difesa Gallant – che all’interno del Gabinetto rappresentava la voce di Washington - è stato il chiaro segnale che l'America stava cambiando rotta.

È gongolante Benjamin Netanyahu per la vittoria di Donald Trump. In un comunicato, il suo ufficio ha tenuto a precisare che il premier è stato tra i primissimi leader mondiali a congratularsi direttamente con il nuovo inquilino della Casa Bianca.

Tra Netanyahu e l’amministrazione Biden non c’è stato mai tanto feeling. Le visite e le chiamate poche. Il premier ha anche vietato ultimamente ai suoi ministri di andare negli Usa senza il suo permesso. Biden e la Harris sono anche coloro che hanno criticato fortemente, tra le altre, la scelta di Netanyahu di entrare boots on the ground a Rafah a maggio. Dove poi a ottobre è stato trovato e ucciso il capo dei capi Yaya Sinwar, tanto che Netanyahu, in questa occasione, lo fece notare.

Rapporto invece opposto con Trump. Netanyahu è talmente vicino al tycoon che, durante la precedente presidenza di quest’ultimo, gli fu anche intitolato un insediamento nel Golan. Trump è stato anche quello che ha favorito gli accordi di Abramo e ha gettato le basi per l’accordo con l’Arabia Saudita. Trump, tramite suo genero Jared Kushner, è anche il fautore dell’ultimo progetto di pace per il Medio Oriente, con la creazione dei due stati.

Netanyahu non ha mai nascosto di preferire Trump. E il licenziamento del ministro della difesa Gallant è stato il chiaro segnale che l’America stava cambiando rotta. “Il più grande ritorno della storia”, come Netanyahu ha definito la vittoria di Trump e “il nuovo inizio per l’America e per la solida alleanza con Israele”, sono gli slogan che accompagnano la soddisfazione del premier per Trump.

Che ora si aspetta dall’inquilino della Casa Bianca almeno due cose: mani più libere e piene di armi per completare i suoi obiettivi di guerra (distruggere Hamas ed Hezbollah, far tornare gli ostaggi, impedire che i gruppi terroristici possano ritornare a nuocere) e colpire l’Iran. Gli Usa hanno vincolato la risposta israeliana all’attacco iraniano del primo ottobre, ai soli obiettivi militari. Netanyahu ha nel mirino da sempre tre cose a Teheran: le più alte istituzioni, l’economia che significa petrolio e gas, il nucleare. Non dimentichiamoci che fu proprio Trump a bloccare l’accordo sul nucleare iraniano e ad imporre nuove sanzioni.

Aver messo due suoi sodali, Katz e Sa’ar in posti chiave, come ministero della difesa ed esteri, mostra proprio la volontà di Netanyahu di non avere ostacoli ai suoi obiettivi. Le dichiarazioni entusiaste dei due rispetto alla vittoria di Trump, vanno in questo senso.

In una delle prime dichiarazioni, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha detto che porterà pace e non farà guerre. Il presidente israeliano Herzog lo ha salutato come “campione di pace”. Anche Hamas si è attaccata a questa dichiarazione di Trump, dicendo che sarà messo alla prova per le sue dichiarazioni secondo cui è in grado di fermare la guerra in poche ore, esortandolo a imparare, per non ripeterli, dagli errori fatti da Joe Biden. Abu Mazen, ha detto, complimentandosi per la vittoria, che si aspetta che Trump porti avanti le legittime aspirazioni palestinesi all’indipendenza e all’autodeterminazione. Lo stesso Trump che aveva trasferito l’ambasciata israeliana a Gerusalemme e aveva chiuso quella palestinese a Washington (mai riaperta da Biden nonostante le promesse).

L’Iran ha ridotto la portata della vittoria di Trump. È chiaro che da Teheran speravano in una vittoria della Harris, per alleggerire le sanzioni che, con il finanziamento ai gruppi che hanno attaccato Israele da Libano, Gaza, Cisgiordania, Siria, Iraq e Yemen, potrebbero anche peggiorare. Non solo: senza il freno americano, anche se Biden ha sempre mostrato sostegno alle operazioni israeliane soprattutto in chiave anti Iran e di difesa, Teheran teme fortemente che Gerusalemme attacchi quanto prima l’ex Persia, in un attacco preventivo, visto che la tanto minacciata risposta iraniana al raid del 25 ottobre, non arriva. E, visto che le difese aeree iraniane pare siano distrutte e che Netanyahu si sente le mani libere, potrebbe risultare nello sprofondare in un vortice militare di indubbie proporzioni.

Il licenziamento di Gallant è stato sicuramente un segnale importante della nuova strada che Netanyahu vuole intraprendere. Dopotutto, i rapporti tra i due compagni di partito, erano già ai minimi termini prima del sette ottobre dell’anno scorso. L’ex ministro della difesa, infatti, è stato il più grande oppositore della riforma della giustizia voluta da Netanyahu. Il massacro del sette ottobre e la guerra hanno fatto desistere il premier dalla sua decisione di licenziare Gallant. Netanyahu, il mese scorso ha imbarcato nel governo il suo ex delfino Sa’ar, poi passato all’opposizione, proprio per sostituire l’ex ministro della difesa, con il quale i rapporti erano ormai irrecuperabili.

Netanyahu ha annunciato di aver licenziato Gallant parlando di mancanza di fiducia. “Purtroppo, sebbene nei primi mesi della guerra ci fosse fiducia e si sia fatto un lavoro molto fruttuoso, negli ultimi mesi questa fiducia si è incrinata tra me e il Ministro della Difesa”, ha poi chiarito Netanyahu in una dichiarazione video. Dissapori basati soprattutto sulla gestione della guerra. Per Netanyahu, inoltre, Gallant ha spesso preso decisioni contrarie all’indirizzo del governo, aiutando indirettamente i nemici di Israele. “Ho fatto molti tentativi per colmare queste lacune, ma continuavano ad ampliarsi”, ha aggiunto, precisando che la maggior parte dei membri del governo è d’accordo con lui.

In verità Gallant rappresentava all’interno del gabinetto, la voce degli americani. Il suo essere un freno alla furia bellica di Netanyahu, deriva proprio dalla vicinanza a Washington, dall’ascoltare sia la Casa Bianca che il Dipartimento di Stato che il Pentagono.

La decisione arriva in un momento di alta tensione nella coalizione di Netanyahu soprattutto per la questione della chiamata alla leva degli ultraortodossi. Solo lunedì Gallant aveva approvato la leva di altri 7.000 Haredim nell’esercito.

Tensione e decisione che ha portato migliaia di persone a manifestare ad Haifa, Netanya e Beersheba e in altri incroci in tutto il paese, oltre alle grandi manifestazioni a Tel Aviv e Gerusalemme, dinanzi alla casa del premier, per chiedere il reintegro di Gallant.

E oggi l’Alta corte discute due petizioni contro il licenziamento del ministro della difesa. Una mossa che segna, ancora di più, la profonda frattura nella politica e nella società israeliana coincisa con l’elezione di Netanyahu.

 

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