Dopo le minacce di Erdogan, Trump ritira i soldati dalla Siria dando così luce verde all’offensiva turca contro gli (ex) alleati curdi, minacciati anche dal ritorno del regime di Assad. E infligge un danno irreparabile alla reputazione degli Usa come partner forte e affidabile
Anche se i risvolti pratici saranno limitati – il ritiro di duemila uomini, un nonnulla per l’esercito più potente del mondo – l’improvvisa decisione del presidente americano Donald Trump di ritirare il contingente statunitense in Siria segna a suo modo una svolta storica.
Intendiamoci, non è che il disimpegno degli Usa dal Medioriente sia una novità. A inaugurarlo fu infatti già il secondo mandato di Barak Obama. L’ex presidente, dopo aver portato a termine il ritiro dall’Iraq, si rifiutò infatti di intervenire in Siria nonostante l’attacco chimico dell’agosto 2013 avesse segnato il superamento di quella “linea rossa” imposta da Obama stesso. Un paio di anni dopo, però, la sua amministrazione si ritrovò a dover stazionare comunque un piccolo contingente militare nel Paese. Ma non per portare a termine l’operazione di regime change tanto temuta da Damasco e i suoi alleati, bensì per contribuire allo sforzo bellico per respingere l’espansionismo dello Stato Islamico.
Se fosse stato per l’attuale inquilino della Casa Bianca anche quel piccolo contingente avrebbe dovuto essere ritirato già mesi fa, nonostante i rapporti che dimostrano come l’Isis sia ancora attivo in diverse zone. Già a primavera, infatti, Donald Trump aveva annunciato l’intenzione di portare a termine il disimpegno, giusto in tempo per solleticare le pulsioni isolazioniste degli americani in vista delle elezioni di mid term.
A remare contro i desiderata del presidente si erano però interposti i generali del Pentagono. Lasciare la Siria in quel momento, secondo l’opinione dei militari, significava perdere ogni speranza di avere voce in capitolo sulla fase post-conflitto, sulla possibilità di premere per un vero processo politico nel regime siriano ed evitare un’eccessiva presenza iraniana nel Paese. Inoltre, dato non da poco, ritirarsi avrebbe significato abbandonare gli alleati curdi al proprio destino – minacciato sia dal ritorno del regime di Damasco sia, soprattutto, dalla volontà di Erdogan di eliminarne il dominio territoriale nel nord siriano – infliggendo un danno irreparabile alla credibilità di Washington come partner affidabile. Argomenti che erano stati accolti con convinzione da alcuni uomini chiave dell’amministrazione, in particolare il dimissionario segretario alla Difesa James Mattis e il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. Ma non da Donald Trump.
Il presidente avrebbe infatti ceduto di malavoglia alle insistenze dei suoi consiglieri fino ad oggi, ma non avrebbe più sentito ragioni dopo le minacce di Erdogan, che a metà dicembre ha promesso di procedere all’invasione del nord-est siriano anche a costo di scontrarsi coi militari americani lì stazionati. Trump non ha intenzione di rischiare lo scontro militare con un alleato chiave come la Turchia per difendere i curdi siriani, anche a costo di abbandonarli al proprio destino. E proprio per evitare nuove lunghe polemiche, Trump avrebbe agito in autonomia, sfruttando i suoi poteri di commander in chief. La decisione sarebbe infatti stata annunciata senza avvisare né il Pentagono, né il segretario Mattis, che per questo avrebbe rassegnato le sue dimissioni.
Una mossa dalle conseguenze dirette tutto sommato limitate, ma dalle conseguenze indirette enormi. In primo luogo, essa concede di fatto “luce verde” all’offensiva turca minacciata da Erdogan nel nord siriano a est dell’Eufrate. Primo obiettivo probabile: la città di Manbij ma non è da escludere un’operazione che si estenda a tutte le aree di confine tra Turchia e Siria. Ma è soprattutto la percezione dell’America nel mondo e in Medio Oriente che ne subirà le conseguenze più durature. È infatti dal 1991 – quando l’amministrazione di Bush senior, dopo aver liberato il Kuwait, abbandonò i rivoltosi iracheni alla repressione spietata di Saddam – che non si assiste a un tradimento così sfacciato di Washington nei confronti di un alleato. In quell’occasione la decisione fu il frutto della consapevolezza della propria forza incontrastata: l’egemonia americana in Medio Oriente era così assoluta che nessuno avrebbe osato avanzare la minima critica. Oggi la decisione di Trump è invece figlia di condizioni dimetricamente opposte: l’America è troppo debole per difendere sia i propri interessi sia quelli degli alleati, ed è pronta a tutelarsi anche mettendo a repentaglio la possibilità di nuove alleanze future. Difficile, infatti, che molti saranno entusiasti di intraprendere una partnership duratura con l’America dopo questa decisione.
Ma i riflessi della mossa di Trump non si ripercuoteranno solo sull’immagine degli Stati Uniti. A farne le spese saranno soprattutto i curdi del Ypg che, dall’inizio del conflitto siriano, erano sembrati i fautori infallibili di una strategia tanto spregiudicata quanto efficace. Non senza un certo cinismo e nonostante le aree a maggioranza curda del nord-est fossero state tra le più attive durante le prime proteste contro il regime di Assad nel 2011, la leadership del Ypg – e del suo braccio politico Pyd – aveva deciso di staccare le istanze curde dalla rivolta contro il regime e approfittare della ritirata strategica di quest’ultimo dal nord-est, stabilendo con Damasco una silente non-belligeranza.
Negli anni successivi il Ypg aveva preso saldamente il controllo di gran parte dei territori del nord, arrivando molto vicino a congiungere le regioni a maggioranza curda a est con il cantone di Afrin a ovest. Una condizione di vantaggio raggiunta anche facendo uso di metodi repressivi, sia contro gli avversari politici – come i membri del Consiglio Nazionale curdo, fazione vicina ai curdi iracheni del clan Barzani – sia contro le proteste delle minoranze arabe, sottoposte, secondo Human Rights Watch, ad abusi e allontanamenti.
Ma la vera svolta era arrivata quando le milizie del Ypg sono emerse come le uniche forze davvero efficaci nel contrastare l’avanzata dello Stato Islamico. Battaglie come quella di Kobane hanno riportato l’attenzione del mondo sulla questione curda e permesso alla leadership del Ypg di intavolare relazioni dirette con potenze internazionali come Usa e Russia. Una posizione di forza dall’apparenza inizialmente inscalfibile che si è progressivamente sgretolata sotto i colpi delle abili mosse diplomatiche di Erdogan – deciso a non permettere alcuna presenza militare lungo i propri confini di quello che considera il braccio siriano del Pkk – e dell’intransigenza del regime di Damasco, deciso a non concedere nemmeno una minima forma di autonomia nella Siria post-conflitto. Per primo è arrivato il “tradimento” di Mosca a inizio 2018, con il ritiro del contingente di osservatori russi da Afrin e la “luce verde” concessa a Erdogan per l’invasione del cantone. E oggi è arrivato quello americano, che mette definitivamente fine a gran parte delle velleità curde per il proprio ruolo nella Siria del futuro.
Sono infatti ben poche le carte rimaste in mano al Ypg. Senza la garanzia Usa le aree di Raqqa e i pozzi petroliferi dell’est strappati all’Isis sono infatti difficilmente difendibili dal ritorno del regime di Assad. Lo stesso vale per il nord, dove una nuova invasione dell’esercito turco e dei suoi proxy siriani potrebbe essere questione di settimane. Ai curdi rimane quindi solo l’opzione più odiosa, quella che spetta solitamente ai perdenti di una contesa: la scelta del male minore. Nei prossimi mesi potremmo quindi assistere a una riconciliazione, molto al ribasso, del Ypg col governo di Damasco: sopravvivenza politica in cambio della disponibilità a fare la guerra ai turchi per conto di Assad.
Una delle grandi sfide politiche per il regime nel prossimo futuro sarà infatti quella di cacciare i turchi dal nord del Paese, dove essi sembrano invece intenzionati a rimanere quanto più a lungo possibile. Per evitare che i territori siriani attualmente sotto controllo di Ankara si trasformino in una nuova Cipro nord, Assad – non potendo permettersi un conflitto diretto con la Turchia – dovrà puntare sul logoramento dell’avversario, possibilmente per interposta persona.
I curdi siriani si potrebbero ritrovare così a fare nuovamente ciò che hanno fatto per gran parte degli anni Ottanta, ovvero la guerriglia alla Turchia per conto di Damasco; con l’unica differenza che ora la dovranno fare nei territori dove prima erano liberi di agire e che oggi sono occupati dallo storico nemico turco. Una sorta di “Anno Zero” per i curdi siriani, forse addirittura peggiore della situazione da cui la loro parabola recente era iniziata. Un epilogo triste, per quella che sembrava poter essere l’unica fazione siriana in grado di poter davvero ricavare qualcosa da questo lungo e sanguinoso conflitto.
@Ibn_Trovarelli
Dopo le minacce di Erdogan, Trump ritira i soldati dalla Siria dando così luce verde all’offensiva turca contro gli (ex) alleati curdi, minacciati anche dal ritorno del regime di Assad. E infligge un danno irreparabile alla reputazione degli Usa come partner forte e affidabile
Anche se i risvolti pratici saranno limitati – il ritiro di duemila uomini, un nonnulla per l’esercito più potente del mondo – l’improvvisa decisione del presidente americano Donald Trump di ritirare il contingente statunitense in Siria segna a suo modo una svolta storica.