Per tre settimane il piccolo Gezi Park, situato in una delle piazze pubbliche più importanti della città più popolosa della Turchia, era sotto occupazione. Nonostante gli ingenti quantitativi di gas al peperoncino utilizzati contro di loro, e le manganellate e i getti di acqua sotto pressione della polizia, i dimostranti hanno tenuto duro.
Gli eventi a Gezi hanno ispirato i dimostranti in Brasile innescando una loro ribellione contro l’inadeguatezza dei servizi pubblici, le politiche di assegnazione delle risorse e le diseguaglianze salariali. Piazza Taksim è diventata sinonimo dell’ondata globale di disordini che ha travolto il mondo intero. Il Governo turco e il Primo Ministro Tayyip Erdoğan, abituato a regnare incontrastato grazie all’incompetenza dell’opposizione parlamentare, hanno riconosciuto la vera natura di questi eventi.

Ma il Primo Ministro, rifiutando l’evidenza di un movimento teso a liberalizzare la democrazia turca che chiede d’essere ascoltato, ha continuato a denunciare gli eventi come un tassello di una vasta cospirazione interna e internazionale per indebolire la Turchia e disarcionare il Partito di Giustizia e Sviluppo (AKP) al potere da un decennio. La reazione del governo è stata violenta, mistificatrice e spietata. La rivoluzione è stata sedata ma lo spirito che la muoveva rimane.
La gioventù si è riversata nelle strade contro le scelte arbitrarie del partito al potere, il costo sociale delle sue politiche economiche e l’eccessiva cementificazione; contro l’intensificarsi delle tendenze autoritarie del Primo Ministro; contro i tentativi di tenere la popolazione lontana dai processi decisionali che influiscono sul suo tenore di vita, inferocita dai ripetuti tentativi di strutturare la vita delle persone in base a principi religiosi.
L’esempio di Istanbul è stato presto seguito da altre grandi città del Paese. Sebbene sotto nuvole di gas al peperoncino, i dimostranti hanno inventato metodi alternativi di organizzare la vita in queste zone occupate.
In una rinascita di energia creativa hanno prodotto slogan, video, canzoni e fecondi spazi pluralistici. Questo tipo di movimento civile, spontaneo, senza etichetta politica è completamente nuovo per la Turchia. Come i movimenti “Occupy” che si sono diffusi nel mondo, o le proteste della Primavera Araba, si tratta di aggregazioni urbane, giovanili, istruite e non ideologiche. Come in altre manifestazioni in tutto il mondo, i social media hanno giocato un ruolo determinante nell’organizzazione della mobilitazione e nella diffusione di informazione e immagini. Questa energia creativa e questo
scoppio d’immaginazione da parte della gioventù urbana turca, precedentemente connotata come “apolitica” ma anche chiaramente individualista, si sono scontrate con la retorica prosaica, noiosa e stolida di un partito al potere completamente impreparato a simili atti di sfida. I contestatori sono stati accusati di essere agenti stranieri, terroristi, nemici della stabilità e prosperità turche, o lacchè del principale partito di opposizione. La nuova élite governativa turca ha rispolverato il manuale
delle vecchie élite. Una non meglio specificata “lobby dei tassi d’interesse” internazionale è stata accusata di sabotare una Turchia in ascesa e con crescente peso politico. Nessuna di queste assurdità ha riscosso il minimo credito. Così come l’accusa che le dimostrazioni fossero antidemocratiche perché sfidavano una maggioranza governativa che aveva ricevuto il 50% dei voti alle elezioni del 2011. Senza dubbio, l’impatto a lungo termine di questi eventi risulterà ancora più significativo
delle immediate ripercussioni. Per un certo verso il Partito di Giustizia e Sviluppo al potere e il suo leader indiscusso Erdoğan sono vittime del proprio successo. Il partito al governo è riuscito a tenere testa all’autoritaria classe dirigente kemalista e sopratutto a quella militare. Con la demilitarizzazione della politica turca, la concentrazione del potere nelle mani di Erdoğan, che non aveva più bisogno del consenso delle aree più liberali del paese (in precedenza cruciali per il suo successo politico), si è intensificata. Erdoğan, nonostante le aperture per la soluzione del problema curdo, ha impostato politiche sempre più autoritarie. L’intento di trasformare la Tur tana dai processi decisionali che influiscono sul suo tenore di vita, inferocita dai ripetuti tentativi di strutturare la vita delle persone in base a principi religiosi.
L’esempio di Istanbul è stato presto seguito da altre grandi città del Paese. Sebbene sotto nuvole di gas al peperoncino, i dimostranti hanno inventato metodi alternativi di organizzare la vita in queste zone occupate. In una rinascita di energia creativa hanno prodotto slogan, video, canzoni e fecondi spazi pluralistici. Questo tipo di movimento civile, spontaneo, senza etichetta politica è completamente nuovo per la Turchia. Come i movimenti “Occupy” che si sono diffusi nel mondo, o le proteste della Primavera Araba, si tratta di aggregazioni urbane, giovanili, istruite e non ideologiche. Come in altre manifestazioni in tutto il mondo, i social media hanno giocato un ruolo determinante nell’organizzazione della mobilitazione e nella diffusione di informazione e immagini. Questa energia creativa e questo scoppio d’immaginazione da parte della gioventù urbana turca, precedentemente connotata come “apolitica” ma anche chiaramente individualista, si sono scontrate con la retorica prosaica, noiosa e stolida di un partito al potere completamente impreparato a simili atti di sfida. I contestatori sono stati accusati di essere agenti stranieri, terroristi, nemici della stabilità e prosperità turche, o lacchè del principale partito di opposizione. La nuova élite governativa turca ha rispolverato il manuale delle vecchie élite. Una non meglio specificata “lobby dei tassi d’interesse” internazionale è stata accusata di sabotare una Turchia in ascesa e con crescente peso politico. Nessuna di queste assurdità ha riscosso il minimo credito. Così come l’accusa che le dimostrazioni fossero
antidemocratiche perché sfidavano una maggioranza governativa che aveva ricevuto il 50% dei voti alle elezioni del 2011. Senza dubbio, l’impatto a lungo termine di questi eventi risulterà ancora più significativo delle immediate ripercussioni. Per
un certo verso il Partito di Giustizia e Sviluppo al potere e il suo leader indiscusso Erdoğan sono vittime del proprio successo.
Il partito al governo è riuscito a tenere testa all’autoritaria classe dirigente kemalista e sopratutto a quella militare. Con la demilitarizzazione della politica turca, la concentrazione del potere nelle mani di Erdoğan, che non aveva più bisogno del consenso delle aree più liberali del paese (in precedenza cruciali per il suo successo politico), si è intensificata. Erdoğan, nonostante le aperture per la soluzione del problema curdo, ha impostato politiche sempre più autoritarie. L’intento di trasformare la Turchia in una società religiosamente conservatrice è diventato palese.
Ma nel frattempo i successi dell’ultimo decennio di liberalizzazione economica e trasformazione politica, principalmente la civilizzazione, in congiunzione con la crescita di un pubblico “interconnesso”, hanno contribuito alla trasformazione della società turca. Quiescente in apparenza, questo pubblico ha finalmente alzato la voce quando l’ultimo angolo di verde di piazza Taksim a Istanbul doveva essere sacrificato per la costruzione di un centro commerciale. La società urbana turca ha aperto una breccia nel muro di paura che le era stato costruito intorno negli ultimi tre o quattro anni. La popolazione urbana
è uscita dalla disperazione dovuta all’assenza di una alternativa democratica sulla scena politica. A lungo in sonno e frammentata, questa società urbana si è ribellata contro le politiche arbitrarie del governo, la privazione dei diritti, la violazione degli spazi privati, l’esproprio delle proprietà collettive per far posto a comunità recintate o centri commerciali.
Durante queste manifestazioni si è vista la ricerca da parte della Turchia di una nuova cittadinanza e il tentativo di allargare gli spazi liberal-democratici nella politica turca. La composizione e i comportamenti dei dimostranti, in particolar modo in piazza Taksim, l’occhio del ciclone, rappresentano una sfida alla concezione maggioritaria della democrazia di Erdoğan e dei suoi accoliti. La natura pluralista dei dimostranti era in chiara controtendenza rispetto alla definizione restrittiva e di stampo culturalreligioso di cittadinanza e società che il partito di governo ha promosso. Queste dimostrazioni e la massiccia mobilitazione riflettono tendenze radicate nella società che non potranno essere rimosse, anche se soppresse nell’immediato. Sono le dinamiche di emersione di una società moderna e pluralista in Turchia. Con ogni probabilità Erdoğan continuerà ad avere una maggioranza per qualche tempo ancora. Ma il significato di questi eventi va oltre la mera politica elettorale.
Il senso di legittimazione contro un governo, che ha dominato la scena politica per gli ultimi dieci anni e mezzo e che ha monopolizzato il potere, difficilmente evaporerà con il ritorno alla calma. Queste sommosse riguardano la futura identità della Turchia. Si tratta di creare una vera Repubblica democratica e laica con l’istituzione della regola della legge, l’indipendenza delle corti e il rispetto per la privacy dei cittadini. La Turchia potrebbe essere più vicina a questi obiettivi di quanto non lo fosse prima degli eventi di Gezi, sebbene la rotta da seguire sia ancora lunga e irta di mille trappole.
Per tre settimane il piccolo Gezi Park, situato in una delle piazze pubbliche più importanti della città più popolosa della Turchia, era sotto occupazione. Nonostante gli ingenti quantitativi di gas al peperoncino utilizzati contro di loro, e le manganellate e i getti di acqua sotto pressione della polizia, i dimostranti hanno tenuto duro.