
Nel giorno dell’anniversario della caduta di Ben Ali, la Tunisia si ferma nuovamente ad ascoltare le testimonianze delle vittime di Stato. In prima serata e in diretta TV, il 14 gennaio è infatti stata trasmessa su diversi canali nazionali e privati la quinta sessione di audizioni pubbliche indette dalla commissione della giustizia di transizione.
L’Istanza di Verità e Dignità, è un organo giuridico indipendente istituito dalla legge nel 2013, che ha il compito di “smantellare il sistema autoritario e di facilitare la transizione verso uno stato di diritto”. Essa ha accolto più di 5000 dossier da parte di vittime della dittatura. I dossier denunciano in prevalenza violazioni di diritti umani, politici e civili, ma una minoranza consistente di casi tratta violazioni economiche, sociali e culturali. Indagando i crimini delle dittature di Habib Bourguiba e Zine el Abidine Ben Ali, e determinando le responsabilità dello Stato, essa si propone di ristabilire la verità e conferire diritti e dignità alle vittime. Un compito estremamente delicato, quello di far combaciare memoria e riconciliazione, e immane, se si tiene conto che l’istanza copre un periodo vastissimo, dal 1955, anno precedente all’indipendenza, sino al 2013.
In questa giornata ad altissimo valore simbolico aprono la seduta le testimonianze di tre giovani “feriti della rivoluzione”, come vengono denominati tutti quei ragazzi rimasti invalidi a causa dei colpi subiti durante le proteste. Giovani che sono la testimonianza vivente che la rivoluzione è una ferita ancora aperta, ancora da sanare. Alcuni hanno gli occhi ancora carichi della stessa rabbia a distanza di 6 anni, dei giorni in cui scesero in strada per cambiare il destino del loro paese, altri hanno gli occhi spenti, doloranti, eppure pieni di dignità. In ogni caso sono qui a testimoniare: la loro propria esistenza prima di tutto, e l’esistenza di una rivoluzione “rubata”.
“L’altro giorno l’ho visto, il poliziotto che mi ha sparato. È sempre lì a fare il suo lavoro. E noi, che abbiamo dato la nostra salute per questo paese, restiamo qui impotenti, qualcuno invalido per sempre, senza lavoro, senza prospettive, abbandonati dallo stato”, racconta Muslim, che ha passato alcuni giorni di coma dopo i colpi subiti.
Khaled non può uscire di casa perché è rimasto sulla sedia a rotelle, e la sua casa è al secondo piano. La mamma è li con lui, a testimoniare insieme al figlio le umiliazioni e le sofferenze subite: anch’egli fu sparato da un poliziotto, e poi lasciato per giorni in ospedale senza cure adeguate. Ne uscì dopo 6 mesi, senza più l’uso delle gambe. Ed oggi, non ha nessuno che possa trasportarlo fuori di casa.
Sono ragazzi rimasti feriti due volte: una dalla dittatura in uniforme che li ha sparati mentre erano disarmati; la seconda da uno stato che ha gettato la sua gioventù migliore nel dimenticatoio. E che anzi, continua a perseguire le persone che hanno partecipato agli eventi rivoluzionari. Ne è un caso eclatante, fra i tanti che passano in sordina, quello degli 11 giovani condannati a 14 anni di prigione per le proteste che seguirono l’assassinio dell’avvocato Chokri Belaid nel 2013.
Sono una goccia in mezzo al mare, dunque, le testimonianze di questi ragazzi. Un mare fatto di violenze fisiche e psichiche, torture, minacce, vessazioni. Le audizioni pubbliche hanno fatto ri-conoscere alla Tunisia la violenza della dittatura: oltre ai giovani del 2011, hanno parlato magistrati e avvocati, madri e mogli di desaparecidos e di martiri, oppositori politici che hanno vissuto il carcere e sono state vittime delle più atroci torture. Ed è proprio quest’ultima forse, la pillola più difficile da digerire.
Molti dei prigionieri politici che subirono torture o che sparirono nelle carceri del paese erano infatti militanti islamisti. Oggi, con lo spettro del “ritorno dei jihadisti” dalle zone di guerra, e con la memoria fresca del periodo del governo di Ennahda, per molti il più nero e violento del post-rivoluzione, sono molte le remore e le critiche verso chi dà la parola agli ex-militanti. L’ostracismo verso la commissione viene inoltre dal governo stesso e dai suoi organi di stampa, che temono la cattiva influenza che queste rivendicazioni possano avere sugli investimenti stranieri, e che accusano di revanscismo la presidentessa Sihem Ben Sidrine, a sua volta attivista per i diritti umani e vittima della dittatura di Ben Ali, e la quale non esita a dichiarare che “il vecchio sistema è ancora lì”.
Nonostante dunque l’istanza prosegua, col beneplacito della comunità internazionale che plaude all’”eccezione tunisina”, molte sono le complessità e le ombre del processo post rivoluzionario. Il paese nordafricano non è uscito immune dalla cosiddetta “primavera”, e a parte lo scontento palpabile dovuto alla crisi economica, e il clima di paranoia per il terrorismo interno e l’islamizzazione della gioventù, la questione della repressione è il risvolto meno discusso anche dagli scettici della rivoluzione. La “minaccia islamica” è uno dei fattori che fa sì che il popolo tunisino rimanga incastrato sotto il giogo di un governo liberale che, mentre mostra all’esterno il suo volto di giovane rampante democrazia dove le associazioni si moltiplicano e la libertà di stampa prospera, ripropone al suo interno i metodi autoritari e le politiche liberiste del vecchio regime. Continua la criminalizzazione dei movimenti sociali, dei disoccupati, dei rivoluzionari. E da Kasserine a Sidi Bouzid, da Ben Guerdane a Gafsa, le strade si incendiano, le barricate si alzano, anche e soprattutto in questo giorno di commemorazione, che più che rosso di festa è rosso di protesta.
Ma la speranza continua se nei giovani resta la volontà di continuare la lotta: “La rivoluzione è iniziata nel 2011,” ricorda ancora Muslim, sottolineandone la natura di processo in corso, “e il nostro spirito è rivoluzionario”. Al di là infatti delle polemiche, dello show, delle critiche, dalle bagarre interne, dalle divisioni politiche, c’è un fatto di portata storica indiscutibile: la Tunisia è oggi costretta ad ascoltare in diretta ed in prima serata, gli abusi, le violenze, i crimini di Stato, di mettere in discussione 60 anni della sua storia, che sono in fondo i 60 anni della sua storia come Repubblica.
Un atto pericoloso in un momento come questo, in un paese ancora giovane e fragile, con una situazione politica potenzialmente esplosiva, con l’economia a terra? Forse. Ma un atto di dignità anche, un atto di coraggio che pochi popoli possono dire di aver eguagliato. Se il paese ne uscirà a pezzi, non sarà colpa di chi dice la verità, quanto di chi per anni ha cercato e continua a cercare di nasconderla.