L’attentato suicida di Mouna Guebia racconta la storia già sentita di una radicalizzazione favorita dall’assenza di prospettive. Ma nella Tunisia segnata da una grave crisi politica, i sospetti si addensano su Ennahda, partito faro del riformismo islamico che rischia di perdere il potere
Mouna Guebla era una ragazza di trent’anni con un buon livello di istruzione e, come molti dei suoi coetanei, un orizzonte ristretto dalla disoccupazione. Viveva con i suoi genitori a Zorda, un villaggio nel governatorato di Mahdia, nell’est della Tunisia. Lavorava con assiduità al suo computer, secondo la ricostruzione di sua madre, Dhahbia, «per preparare il dottorato». Indossava il velo da quando aveva conseguito il diploma di maturità, ma le sue abitudini religiose non si erano mai intensificate.
«Pregava come tutti senza essere particolarmente devota» ha raccontato ancora la madre. Lunedì 29 ottobre aveva lasciato l’abitazione spiegando che si sarebbe intrattenuta qualche giorno a Sousse per cercare lavoro. Una prassi consolidata per i giovani tunisini, la ricerca senza fine. Ha socchiuso per l’ultima volta la porta di casa intorno alle 7 del mattino e declinato l’invito di uno zio che si era offerto di accompagnarla alla fermata del bus. Qualche ora dopo, su avenue Bourguiba, il luogo simbolo di Tunisi, il grembo di ogni atto politico, ha attivato la cintura esplosiva artigianale che nascondeva sotto il vestito. Ha scelto di farsi esplodere in prossimità di una camionetta della polizia. Ha ferito quindici agenti e cinque passanti, tra cui due adolescenti, ma nessuno in modo grave.
La cornice dell’attentato sembrerebbe piuttosto chiara. Una giovane donna radicalizzata, la prima kamikaze nella storia tunisina, virata verso il martirio dall’assenza di prospettive e speranza in un Paese immerso in una transizione democratica complessa, che ha ceduto a Daesh 6.500 giovani, quasi tutti assorbiti dal teatro bellico siriano. La mente dei tunisini è tornata al 2015 con i due attentati-manifesto del Bardo (22 morti) e di Sousse (39 vittime, tutti turisti). Ma molte altre azioni jihadiste sono andate a segno in questi anni – da Jebel Chaambi a Kef passando per Sidi Bouzid –, lontano dai clamori mass-mediatici, in cui le vittime sono sempre state soldati, poliziotti o guardie nazionali. Paesaggi di morte spesso rivendicati dai gruppi estremi salafiti, ma che dal 2015 si erano rarefatti.
Il suicidio di Mouna acquisisce un’altra profondità se inserito nel contesto politico attuale. È dagli omicidi politici di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, consumati il 6 febbraio e il 25 luglio 2013, che la Tunisia non affronta una fase politica di sbandamento così pronunciata.
Nelle ultime settimane si è fatta strada l’ipotesi che il governo tra Nidaa Tounes e il partito islamico di Ennahda concluda la sua esperienza. Nidaa Tounes è tentata di aprire alle altre forze progressiste e laiche anche per riposizionarsi in vista delle cruciali elezioni presidenziali del 2019. Ennahda rifiuta in modo categorico di essere estromessa dal potere e teme una nuova persecuzione in stile benaliano.
Due giorni prima del gesto di Mouna, Ennahda ha celebrato la dodicesima conferenza dei suoi quadri in cui il leader Rachid Ghannouchi ha dettato una frase d’impatto e sibillina: «Certi partiti vogliono annegare la Tunisia in un bagno di sangue».
Ennahda è finita recentemente anche nell’occhio del ciclone in seguito alle rivelazioni del Comitato per la difesa dei martiri Belaid e Brahmi che hanno indicato il partito islamico come coinvolto nei due omicidi. In particolare, sono stati presentati documenti e registrazioni che proverebbero l’esistenza di un’organizzazione segreta riconducibile a Ennahda. La procura di Tunisi ha aperto un’inchiesta, mentre l’ex ministro dell’Interno all’epoca degli omicidi, Ali Larayedh di Ennahda, ha smentito l’esistenza di una struttura segreta e Ghannouchi ha precisato che questa è stata smantellata nel 1995 quando il partito ha avviato la fase di graduale trasformazione in movimento civile. Il presunto responsabile di questa organizzazione parallela, Mustafa Kheder, condannato a otto anni di reclusione nel 2016 per possesso illegale di documenti di Stato, è stato accostato a Ennahda, ma anche in questo caso Ghannouchi ha replicato che «non ha alcuna relazione con il nostro partito».
Hamadi Redissi, professore di scienze politiche all’università di Tunisi, rileva tutte le anomalie e le insidie di questa fase. «Nessuno ha domandato ufficialmente l’esclusione di Ennahda e nessuno potrà ottenerla a meno di una guerra civile – è la cupa previsione che Redissi consegna a eastwest.eu. Ennahda è presente in tutte le 350 municipalità tunisine e governa il 39% di queste».
Per quanto concerne il gesto di Mouna, il politologo rileva che «di solito Daesh rivendica gli attentati anche quando sono condotti da lupi solitari, invece fino ad ora nessuno è intervenuto. Nemmeno Ansar al-Shari’a (movimento salafita messo fuori legge, ndr) l’ha rivendicato. Si è trattato, dunque, di un’operazione isolata o di un gesto pianificato nel quadro di una strategia di destabilizzazione? Credo sia necessario attendere per comprendere quale sia la risposta».
Redissi nota però alcune coincidenze: «L’attentato ha avuto luogo esattamente nel momento in cui il ministro dell’Interno stava per prendere la parola in parlamento dove era stato convocato per spiegare le gravi rivelazioni avanzate dal Comitato per Belaid e Brahmi. Ha dovuto interrompere l’audizione per recarsi sul posto. Inoltre, è arrivato all’indomani del discorso di Ghannouchi ai quadri del partito in cui ha affermato tre cose gravi: alcuni partiti cercano di annegare il Paese nel sangue; ha evocato l’uccisione di Kashoggi e chiesto che fosse osservata una preghiera per il defunto, salvo il giorno dopo emettere una precisazione per non irritare i sauditi; ha riconosciuto che Ennahda ha avuto un apparato di sicurezza fino al 1995 mentre gli altri dirigenti ne negavano l’esistenza. La loro reazione mi ha sorpreso: invece di affidarsi alla giustizia, Ennahda ha assunto posizioni minacciose». Non c’è dubbio, infine, che «l’operazione suicida sfrutta le divisioni tra il presidente Essebsi (fondatore di Nidaa Tounes, ndr), Ennahda e il premier Chahed. C’è una grande confusione nel Paese in cui tutto sembra mescolarsi: i servizi segreti, i conflitti politici, i sospetti su Ennahda».
Saadi Brahmi è il fratello del “martire” Mohamed, leader politico dell’opposizione che venne freddato sotto casa, nel quartiere di Ariana a Tunisi cinque anni fa. È originario di Sidi Bouzid, il paese in cui è fiorita la rivoluzione a cavallo tra il 2010 e il 2011. E disegna previsioni fosche sul futuro del Paese: «Le presidenziali del 2019? Rischiamo di non arrivarci, la Tunisia si sta avviando verso un vicolo cieco» dice a eastwest.eu.
Brahmi non crede alla tesi del lupo solitario che avrebbe organizzato l’atto suicida in avenue Bourguiba. «Due ipotesi si fanno strada: o è un segnale al presidente Essebsi che un’eventuale esclusione di Ennahda dal governo, il partito più forte e radicato presente in Tunisia, renderebbe insicuro il cammino del Paese oppure le organizzazioni terroristiche vogliono dimostrare di esistere ancora. Ansar al-Shari’a è stata messa fuorilegge per abbassare la pressione sulla società, ma ha sempre intrattenuto rapporti, peraltro documentati, con l’ala più estrema di Ennahda».
Secondo Brahmi, l’ambivalenza del partito islamico è un problema: «Esiste un’ala moderata e pacifica e una estremista che utilizza un linguaggio violento e minaccioso, tra cui alcuni ex ministri. Insinua un cuneo nella dialettica democratica». Per l’uccisione di suo fratello, sono state incriminate sette persone, tutte legate ai movimenti salafiti. L’esecutore materiale, Boubaker El-Hakim, che era stato condannato a 15 anni per terrorismo in Francia (ma poi liberato), è morto successivamente in Siria nel 2016. «Io chiedo giustizia non per i killer, che sono l’ultima ruota del carro, ma per i mandanti dell’omicidio di Mohamed e di Belaid. La società tunisina deve sapere. Mio fratello è stato il cervello della rivoluzione e Belaid uno dei falchi. Sono stati messi fuori scena per liberare il campo da un insieme di soggetti che sono corresponsabili, a partire dalla vecchia rete di potere benaliana» rimarca Brahmi.
Le rivelazioni del Comitato su Ennahda non l’hanno sorpreso né il momento storico in cui questi documenti sono emersi. «È evidente – prosegue – che il distacco tra Nidaa Tounes e Ennahda ha favorito l’emersione di queste novità. Ricordo che Ennahda gestiva il ministero degli Interni durante gli omicidi politici (con Ali Larayedh, ndr) e che i servizi segreti americani, infiltrati in Ansar al-Shari’a, avevano inviato un’informativa avvertendo che Mohamed Brahmi sarebbe stato ucciso. Quell’informativa non venne nemmeno protocollata e rimase lettera morta. Ora pretendo la verità».
@simonecasalini
L’attentato suicida di Mouna Guebia racconta la storia già sentita di una radicalizzazione favorita dall’assenza di prospettive. Ma nella Tunisia segnata da una grave crisi politica, i sospetti si addensano su Ennahda, partito faro del riformismo islamico che rischia di perdere il potere