Il messaggio è chiaro. Dopo le dimissioni di Davutoglu in Turchia nessuno può ritenersi intoccabile. Il primo ministro ha fatto un passo indietro dopo aver incontrato il presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan. Di fondo, ha pagato il tentativo di fare il premier di testa propria, senza seguire le direttive del leader islamico che lo scelse per prendere il suo posto nel 2014, dopo essere diventato capo di Stato.
Il problema è che Ahmet Davutoglu pensava che, dopo la vittoria elettorale del 1° novembre scorso, quando Erdogan non aveva praticamente partecipato alla campagna, fosse legittimato a guidare il governo come meglio riteneva. E invece non era così. Il motivo più importante, probabilmente l’unico per cui il presidente della Repubblica lo aveva scelto, era che così Davutoglu avrebbe controllato l’Akp al posto suo. Più che un premier, un cane da guardia, insomma, pronto a eseguire gli ordini.
Per un po’ il meccanismo ha funzionato. Davutoglu era quasi ben contento di tenere a bada quella formazione politica che non lo aveva mai visto di buon occhio e che, se Erdogan fosse caduto, gli avrebbe subito presentato il conto per la sua carriera troppo fulminea e con la quale era passato davanti a molti.
Con il passare dei mesi, però, il primo ministro ha iniziato a fare di testa sua, indispettendo non poco il Capo dello Stato. Il primo screzio grosso fra i due si è avuto per la candidatura alle elezioni dello scorso giugno di Hakan Findan, numero uno dei servizi segreti, che però Erdogan respinse, spiegando che doveva restare al Mit. Successivamente Davutoglu ha iniziato a togliere di mezzo uomini vicini a dirigenti dell’Akp graditi a Erdogan, come Binali Yildirim e Bekir Bozdag, procurandogli non pochi imbarazzi.
Il primo ministro credeva veramente di poter esercitare il potere previsto dal suo mandato e soprattutto nei confronti del presidente aveva un’arma formidabile: la riforma costituzionale. E’ vero che Erdogan sta gestendo il Paese come se ne fosse già il padrone assoluto, ma è anche vero che teoricamente non sarebbe autorizzato dalla legge a farlo. I lavori per la nuova legge madre dello Stato andavano a rilento ed Erdogan era sempre più indispettito da questo.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’accordo sui rifugiati firmato con l’Unione Europea, dove Davutoglu secondo il capo di Stato ha portato a casa condizioni troppo edulcorate. E così quello che è stato una spalla e un fedelissimo per sette lunghi anni è stato liquidato con un colloquio durato un’ora e 40 minuti.
La domanda che molti si pongono è chi prenderà il posto di Davutoglu ora. I nomi in pole position sono 5: Bekir Bozdag, Berat Albayrak. Binali Yıldırım. Mehmet Muezzinoglu, Numan Kurtulmus. Si tratta di persone particolarmente vicine al leader islamico, che possono contare su sostenitori del partito ma non su una propria corrente e che soprattutto devono tutto il loro percorso politico a lui. Berat Albayrak è addirittura suo genero.
Tutto sembrerebbe andare come secondo i piani. Ma Erdogan deve fare i conti con un altro aspetto, che forse ha sottovalutato troppo. Il suo Akp non è più quello di una volta. Ci sono almeno due fazioni, riconducibili a Bulent Arinc e Abdullah Gul, che da tempo hanno assunto posizioni distanti da quelle del Capo di Stato. Rimane poi da vedere quante persone all’interno del gruppo dirigente del Partito siano a favore di un assetto presidenzialista e qui ci potrebbero essere delle sorprese.
I principali commentatori hanno scritto che con la defenestrazione di Davutoglu inizia un nuovo periodo nella storia dell’Akp. Potenzialmente si tratta anche dell’ultima chance per ridimensionare il presidente della Repubblica e il suo autoritarismo crescente.
Il messaggio è chiaro. Dopo le dimissioni di Davutoglu in Turchia nessuno può ritenersi intoccabile. Il primo ministro ha fatto un passo indietro dopo aver incontrato il presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan. Di fondo, ha pagato il tentativo di fare il premier di testa propria, senza seguire le direttive del leader islamico che lo scelse per prendere il suo posto nel 2014, dopo essere diventato capo di Stato.