I rapporti diplomatici sono sempre più tesi, ma quando c’è di mezzo il business i problemi per Turchia e Israele sembrano non esistere. A dirlo è niente meno che il Tuik, l’Istituto di Statistica turco. Dal 2009, anno ufficiale di inizio della crisi fra le due nazioni, un tempo grandi alleate del Mediterraneo, al 2014, le esportazioni sono aumentate del 50%, soprattutto quelle di parte turca.

L’Interscambio commerciale 5 anni fa era 2,6 miliardi di dollari, oggi siamo arrivati a 5,6 miliardi di dollari. L’export di Ankara verso Gerusalemme è passato da 1,5 miliardi di dollari a 2,7 miliardi di dollari, mentre quello israeliano da 1,1 a 2,7 miliardi di dollari. Tutto questo con una presenza diplomatica ridotta al minino indispensabile, rapporti bilaterali sempre più tesi e una crisi, quella siriana, che ha destabilizzato l’intera regione.
La Turchia esporta ferro, acciaio, materiale elettrico, tessile e persino, indirettamente, petrolio proveniente dalla Regione autonoma curda del Nord Iraq, altro territorio con cui, teoricamente, dovrebbe essere ai ferri corti, ma con il quale intrattiene ottimi rapporti commerciali.
Le relazioni fra Turchia e Israele hanno avuto una vera e propria degenerazione da quando l’attuale presidente Recep Tayyip Ergogan, molto sensibile alla causa palestinese e accusato di essere un fervido sostenitore di Hamas, ha consolidato il suo potere.
Nel 2009 Erdogan durante il World Economic Forum a Davos, in Svizzera, strappò letteralmente il microfono di mano all’allora presidente israeliano Simon Peres per attaccare Gerusalemme. Una vera e propria invettiva per ricordare i bambini sulla Striscia di Gaza, morti durante l’operazione piombo fuso, ma che per molti analisti nasconde motivi di astio ben più viscerali.
La situazione si è irrimediabilmente compromessa nel giugno del 2010, quando la nave turca Mavi Marmara, che faceva parte del convoglio umanitario Freedom Flottilla, è stata attaccata in acque internazionali dalla marina israeliana, mentre cercava di forzare il blocco e portare viveri alle popolazioni che vivono sulla Striscia attualmente ancora sotto embargo. Il bilancio fu di nove vittime, tutte turche. La nave era stata organizzata dalla IHH, un’organizzazione umanitaria particolarmente ricca e potente in Turchia, accusata proprio di finanziare Hamas.
Ankara da quel momento ha interrotto i rapporti diplomatici con Israele, pretendendo, per tornare allo status di normalità le scuse ufficiali di Gerusalemme, la compensazione economica per le vittime dei familiari e la fine dell’embargo sulla Striscia. Israele ha già adempiuto alle prime due richieste ma ha sempre dichiarato fuori discussione la terza.
E se il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavasoglu, non ha partecipato alla Conferenza sulla sicurezza di settimana scorsa a Monaco per evitare la controparte israeliana, dal punto di vista commerciale, la Turchia sembra farsi molti meno problemi, anche alle sfere più alte. Burak Erdogan, figlio del presidente turco, proprietario di una società di spedizione, continua a utilizzare il porto israeliano di Ashdod.
I rapporti diplomatici sono sempre più tesi, ma quando c’è di mezzo il business i problemi per Turchia e Israele sembrano non esistere. A dirlo è niente meno che il Tuik, l’Istituto di Statistica turco. Dal 2009, anno ufficiale di inizio della crisi fra le due nazioni, un tempo grandi alleate del Mediterraneo, al 2014, le esportazioni sono aumentate del 50%, soprattutto quelle di parte turca.