Sintomatica la divisione del paese: Erdogan ha vinto nelle aree rurali mentre Kilicdaroglu ha vinto nelle città, sulla costa mediterranea e nell’Oriente curdo. Inizia il “secolo turco”, ha dichiarato il Presidente rieletto, che esce ancora più rafforzato dalla gara elettorale.
Con un paese uscito dalle urne presidenziali diviso a metà, Recep Tayyip Erdogan rinnova per altri cinque anni il suo mandato presidenziale e inaugura il “secolo turco”, come lo ha definito lui stesso. Quello che al termine del suo mandato sarà il più longevo leader turco, più del fondatore della Patria Mustafa Kemal Ataturk, che ha già superato, ha vinto le presidenziali puntando soprattutto sull’identità turca, divisa tra laicismo e secolarismo. Ed è puntando sul secondo che ha sbaragliato un contendente che, comunque, non sembrava avere tutte le carte in regola, almeno non il carisma del “sultano di Istanbul”, per sbaragliare la partita. Così alla fine Erdogan ha chiuso al 52,14% la contesa, relegando Kemal Kilicdaroglu al 47,86%.
Sintomatica la divisione del paese: il sultano ha vinto nelle aree rurali del paese, il “Gandhi turco” (così definito più per una pseudo somiglianza fisica che per le idee politiche) vince nelle città e sulla costa mediterranea ed egea e nella parte orientale. Dopotutto, il laicismo della coalizione a sei partiti di Kilicdaroglu non poteva non fare breccia anche a Istanbul, dove comunque Erdogan ha cominciato la sua carriera politica essendone stato il sindaco per cinque anni, durante i quali ha gettato le basi per lo sviluppo internazionale della metropoli sul Bosforo, e nelle altre città e luoghi più fedeli alla svolta non religiosa voluta da Ataturk e maggiormente sviluppate dal punto di vista infrastrutturale ed economico; oppure alle zone orientali dove la presenza curda è da sempre una spina nel fianco per il sultano.
Proprio le metropoli turche, dove la pesante crisi economica si è fatta sentire di più, hanno sperato in un cambiamento. Anni di politiche economiche che hanno svuotato le casse dello stato a favore di prebende e investimenti faraonici, hanno portato l’inflazione al picco dell’83% ad ottobre, poi sceso ultimamente al 50%, con svalutazione totale della lira turca, che negli ultimi cinque anni ha perso il 77% del suo valore sul dollaro, quando invece veniva quotata uno a uno con il biglietto verde. Il raddoppio degli stipendi agli statali, visto come mancia elettorale da parte di Erdogan poco prima delle elezioni decisive, e lo scellerato sviluppo che ha portato alle costruzioni selvagge sbriciolatesi come crackers durante il devastante terremoto del 6 febbraio scorso facendo oltre 46mila vittime, sono solo alcuni ingredienti della profonda crisi economica che il sultano dovrà affrontare, crisi che comunque deriva dalle sue scelte.
La Turchia che aveva contribuito a creare agli inizi degli anni 2000 e che una decina di anni fa viaggiava a ritmi del 6% di crescita, è un mero ricordo. Ma la frustrazione per la questione economica che, non dimentichiamocelo, obbliga anche Erdogan ad essere sempre più dipendente dall’abbraccio mortale russo visto che Putin gli ha abbonato una corposa bolletta energetica, non ha impedito al sultano di vincere.
A pesare di più, il sentimento secolare. Dopotutto era una strada segnata da quando, finito il suo premierato al governo e cominciato il suo mandato presidenziale, cambiò la costituzione per far diventare la Turchia, di fatto, una democrazia guidata da un uomo forte. Puntando soprattutto sull’identità islamica, contro le “derive delle comunità LGTBQ+” ed altre simili provenienti dall’Occidente, festeggiando la vittoria elettorale nello stesso giorno, 570 anni dopo la vittoria di Maometto II che valse la conquista di Costantinopoli da parte degli ottomani, Erdogan è di nuovo in sella.
Lui dice per l’ultima volta: dopotutto la sua costituzione così dice, ma nulla è certo da parte di chi è accusato anche di aver orchestrato un finto (probabilmente non così farlocco) colpo di stato, nel 2016, per stringere di più ancora i cordoni contro gli oppositori e rimuoverne tra arresti e allontanamenti circa 5000.
Anche il suo oppositore aveva smesso i panni del padre indiano della non violenza e fatto dichiarazioni a favore del rimpatrio delle migliaia di profughi siriani presenti sul territorio, un cavallo di battaglia del sultano, cercando di combatterlo e superarlo sul suo stesso terreno.
Di certo è che la politica internazionale, soprattutto Europa e Nato, dovranno fare i conti con un Erdogan che esce ancora più rafforzato anche nella sua ambivalenza: quella che lo vede alleato di Putin, tanto da non accettare l’applicazione delle sanzioni, ma buon mediatore nel conflitto soprattutto per quanto attiene l’esportazione di grano ucraino; quella che lo vede a capo del paese con il secondo maggior esercito della Nato ma che blocca l’espansione dell’Alleanza difensiva, prima rendendo estremamente difficile l’ingresso della Finlandia e ora non accettando quello della Svezia; quello che ospita 50 testate nucleari americane; che ospita 4 milioni di rifugiati; che ha anche ampliato la portata dell’esercito turco nel nord della Siria; che mantiene stretti legami con diversi gruppi islamisti, alcuni ritenuti terroristi come Hamas che, infatti, è stato tra i primi a congratularsi per la vittoria. Una sfida, quella del secolo turco, non solo per i turchi ma per il mondo intero, Europa in testa.
Con un paese uscito dalle urne presidenziali diviso a metà, Recep Tayyip Erdogan rinnova per altri cinque anni il suo mandato presidenziale e inaugura il “secolo turco”, come lo ha definito lui stesso. Quello che al termine del suo mandato sarà il più longevo leader turco, più del fondatore della Patria Mustafa Kemal Ataturk, che ha già superato, ha vinto le presidenziali puntando soprattutto sull’identità turca, divisa tra laicismo e secolarismo. Ed è puntando sul secondo che ha sbaragliato un contendente che, comunque, non sembrava avere tutte le carte in regola, almeno non il carisma del “sultano di Istanbul”, per sbaragliare la partita. Così alla fine Erdogan ha chiuso al 52,14% la contesa, relegando Kemal Kilicdaroglu al 47,86%.
Sintomatica la divisione del paese: il sultano ha vinto nelle aree rurali del paese, il “Gandhi turco” (così definito più per una pseudo somiglianza fisica che per le idee politiche) vince nelle città e sulla costa mediterranea ed egea e nella parte orientale. Dopotutto, il laicismo della coalizione a sei partiti di Kilicdaroglu non poteva non fare breccia anche a Istanbul, dove comunque Erdogan ha cominciato la sua carriera politica essendone stato il sindaco per cinque anni, durante i quali ha gettato le basi per lo sviluppo internazionale della metropoli sul Bosforo, e nelle altre città e luoghi più fedeli alla svolta non religiosa voluta da Ataturk e maggiormente sviluppate dal punto di vista infrastrutturale ed economico; oppure alle zone orientali dove la presenza curda è da sempre una spina nel fianco per il sultano.