Small Projects Istanbul, una realtà alternativa di accoglienza
Durante gli ultimi giorni trascorsi ad Istanbul prima di ritornare a casa per festeggiare il Natale, pensavo che avrei lasciato la città con un solo rammarico: non aver visitato un campo profughi e quindi non avere avuto occasione di vedere da vicino come la Turchia stava gestendo i flussi di rifugiati provenienti dalla Siria, oggetto dei criticati accordi con l’Unione Europea.

Durante gli ultimi giorni trascorsi ad Istanbul prima di ritornare a casa per festeggiare il Natale, pensavo che avrei lasciato la città con un solo rammarico: non aver visitato un campo profughi e quindi non avere avuto occasione di vedere da vicino come la Turchia stava gestendo i flussi di rifugiati provenienti dalla Siria, oggetto dei criticati accordi con l’Unione Europea.
Finché una compagna di studi non mi parla di un progetto per il quale avremmo dovuto raccogliere più ragazzi possibili, disposti a finanziare un’associazione di rifugiati siriani in cambio di una cena preparata nella quale ci hanno proposto le più tradizionali ricette mediorientali. Dopo tre autobus e un’ora e mezza di strada, arriviamo a Fatih, quartiere popolare, dove i veli femminili si moltiplicano: due ragazzi dell’associazione ci conducono attraverso vicoli per poi giungere davanti a una palazzina fatiscente di tre piani. In quello che doveva essere probabilmente un grande garage, siamo stati accolti da una decina di coetanei, da altrettante signore che cucinavano e dall’attenzione affettuosa di una ventina di profughi che intendevano testimoniare la loro gratitudine per la nostra solidarietà.
“Small Projects Istanbul”, o SPI, è un’associazione ideata da Karyn Thomas, un’australiana che si è installata a Istanbul per contribuire a un’accoglienza dignitosa dei rifugiati nel Paese che al mondo, secondo i dati UNHCR, ne ospita il numero più alto (circa 3 milioni). Lo scopo di SPI, secondo le parole di Chris Mclaren, il direttore del programma, è quello di ricreare una famiglia lontano dalla propria. Strutturare una vera e propria comunità, un gruppo di persone sulle quali poter contare e con le quali poter costruire un presente e un futuro, pur essendo stati costretti ad abbandonare la propria terra devastata dalla guerra civile. SPI si avvale di decine di volontari provenienti da diversi paesi di tutto il mondo, spesso gli stessi rifugiati, che organizzano attività come la vendita di oggetti realizzati artigianalmente, lezioni di turco e inglese per i bambini che dovranno cominciare a frequentare scuole locali, lezioni di musica, giochi ed eventi come la nostra cena.
Una storia che mi ha colpito particolarmente tra quelle che ci hanno spontaneamente raccontato è stata quella di Mohmmad, un ventiquattrenne iracheno che vive a Istanbul ormai da più di un anno. Lavorava in Iraq come cameraman per un notiziario politico di un canale televisivo nazionale. Cominciò a essere una posizione delicata da occupare quando, tre anni fa, l’ordine pubblico era ormai sfuggito completamente al controllo del Governo post-Saddam: le incursioni di terroristi e le reazioni scomposte delle forze governative hanno finito con il creare un clima irrespirabile per tutti, ma soprattutto per chi fa informazione. Inevitabile la decisione di abbandonare il proprio paese, per trovare rifugio in Turchia, a Istanbul, dove per i primi mesi gli sembrava addirittura di continuare ad essere pedinato.
Oggi, parla un ottimo turco, fabbrica e vende le famose fotografie illuminate che si vedono spesso quando si gira per Istanbul e si è integrato perfettamente nel tessuto sociale della città. In SPI ha trovato una comunità e una famiglia sulla quale poter fare affidamento. Mohmmad ha trovato in Turchia un rifugio dai suoi carnefici.
Quella sera sono rientrata nella mia residenza universitaria con la consapevolezza che i turchi hanno realizzato un’accoglienza dignitosa e apprezzata, facendo leva anche su formule di collaborazione tra pubblico, privato e mondo del no-profit. Non posso escludere che in altre aree del Paese il trattamento dei rifugiati non sia ineccepibile ma ho ripensato alle furiose critiche lette sulla stampa occidentale prima di recarmi in Turchia e non ho potuto non considerarle ingenerose e superficiali. Forse bisognerebbe interrogarsi sulla qualità di un’informazione troppo spesso imparziale e frutto di preconcetti.
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