
I media hanno imposto un’unica idea di bellezza ma “only white is beautiful” è al tramonto.
Da Tokyo a Rio de Janeiro, sfogliare periodici femminili può essere deprimente: le modelle sono uniformemente magre, grandi occhi brillano nei loro volti senza rughe, e sulle riviste occidentali sono quasi tutte bianche.
Per secoli, ogni società ha avuto i propri standard di bellezza, i propri riferimenti in materia di cosmesi, abbigliamento e acconciature. In molte culture si apprezzavano le curve femminili, spesso associate alla fecondità. I cambiamenti sono iniziati nella seconda metà dell’Ottocento, sotto l’impulso in particolare del colonialismo.
Secondo Geoffrey Jones, professore alla Harvard Business School e autore del libro “Beauty Imagined. A History of the Global Beauty Industry”, è allora che “è emerso una sorta di standard globale di bellezza, dove per essere belli bisognava avere una pelle bianca e lineamenti occidentali”.
Dall’inizio del Novecento, poi, bisognava anche essere magre. “Era l’apice dell’imperialismo occidentale, la pelle bianca era considerata superiore”, Jones spiega, osservando come questi ideali siano stati poi ripresi e propagati dall’industria cosmetica, dal cinema hollywoodiano e dai programmi televisivi americani.
Sono standard che pesano molto più sulle donne che sugli uomini. Confrontate quotidianamente ai modelli diffusi dai media, molte donne non si trovano attraenti. Per ridurre il gap fra il proprio fisico e un ideale reso ancora più irraggiungibile dall’uso sfrenato di PhotoShop nelle immagini sulla stampa e sul Web, sono pronte a sottoporsi a diete estenuanti, costosi trattamenti estetici e dolorosi interventi di chirurgia plastica: non a caso, alcune femministe – come la scrittrice Naomi Wolf, autrice di “The Beauty Myth, How Images of Beauty Are Used Against Women” – percepiscono gli standard di bellezza come una forma di alienazione, se non di violenza.
Colpisce quanto sia ancora d’attualità il vecchio detto “se bella vuoi apparire, un po’ devi soffrire”. Se le donne occidentali non esitano a passare sotto i ferri per ridurre la cellulite, modificare il seno o ringiovanire il viso, l’intervento più diffuso in Asia e fra la comunità asiatica americana è la blefaroplastica, con la creazione di una doppia palpebra per allargare gli occhi.
La pratica è esplosa negli ultimi anni, in particolare in Cina e in Corea del Sud. Le mamme coreane regalano ormai l’operazione alle figlie adolescenti per il compleanno, con l’idea di aiutarle a trovare, in futuro, un buon lavoro e un marito… L’intervento cambia di molto la fisionomia, e alcune voci – ancora piuttosto isolate – si levano contro quella che considerano una perdita d’identità.
Un’altra pratica invasiva diffusa sia in Asia e in Africa è lo sbiancamento della pelle. Secondo il professor Jones, non si tratterebbe tanto dell’imposizione di un criterio occidentale, almeno non in Asia, dove la pelle chiara è un tradizionale segno di bellezza. In molte culture, anche africane, la pelle scura era associata alla povertà e ai lavori nei campi. Parecchie star con la pelle scura, del resto, si sono sottoposte a questo diktat, e non solo Michael Jackson.
Le promotrici del blog “Beauty Redefined”, lanciato per opporsi alla bellezza standardizzata, notano come le immagini sui media di Beyonce, Jennifer Lopez o Rihanna “sono diventate sempre più ‘anglicizzate’ o sbiancate nel tempo, con capelli stirati e schiariti, trucco schiarente, lenti a contatto colorate”.
Dietro all’ideale universale di una pelle chiara si nascondono formidabili interessi economici e non pochi rischi per la salute. Secondo dati diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in un opuscolo del 2011, il 77% delle donne nigeriane e il 35% di quelle sudafricane usa regolarmente prodotti sbiancanti, che rappresentano il 61% del mercato dermatologico indiano. L’OMS mette in guardia contro le creme e i saponi al mercurio, e sul mercato nero abbondano prodotti potenti ma potenzialmente pericolosi, che contengono sostanze nocive (acidi, idrochinone…).
Da un secolo e mezzo, le pressioni ideologiche e gli interessi economici hanno imposto, attraverso i mass-media, un modello di fisico perfetto. “Tuttavia, c’è un vasto movimento che si allontana dal ‘only white is beautiful’, e vedo una crescente diversità negli standard di bellezza”, chiosa il professor Jones, che cita l’influenza del movimento dei diritti civili negli USA, della decolonizzazione, della crescente diversità etnica nelle società occidentali e della crescita economica della Cina e dell’India.
“Per quanto riguarda la bellezza – aggiunge Jones – tutto questo sembra avere stimolato una riaffermazione delle tradizioni locali. Viviamo quindi in un momento di transizione, la cui direzione, però, non è ancora chiara. Da una parte, abbiamo una cultura della celebrità globale e dei brand, come L’Oréal, che operano in tutto il mondo o quasi; dall’altra, la bellezza sta diventando molto più diversificata in termini di etnicità e tono della pelle”.
Il marchio Dove (Unilever) è stato il primo a cavalcare la nuova tendenza con la campagna “Real Beauty”, lanciata nel 2004, dove vengono rappresentate, appunto, donne vere, comprese alcune stupende vecchie signore. Segno, forse, che anche la ricerca ossessiva della gioventù comincia a cedere il passo. In un’era di invecchiamento della popolazione, le case cosmetiche non possono permettersi di alienarsi una fetta importante – e facoltosa – di mercato.
Resta l’ultimo tabù: quello della linea. Le celebrità formose – da Kim Kardashian alla cantante Adele – e le modelle oversize, come Tara Lynn, restano ancora vistose eccezioni: “Fat is beautiful” non è dietro l’angolo.
I media hanno imposto un’unica idea di bellezza ma “only white is beautiful” è al tramonto.