I separatisti filorussi nell’est Ucraina hanno accusato Kiev di averli attaccati. Uno sviluppo preoccupante, dato che Mosca potrebbe sfruttare la notizia per giustificare un intervento militare nella zona
Ieri c’è stato uno scambio di accuse tra il Governo dell’Ucraina e i ribelli filorussi che combattono nella parte orientale del Paese, il Donbass. Ciascuna delle parti incolpa l’altra per aver aperto il fuoco. I ribelli dell’autoproclamata Repubblica popolare di Lugansk (una delle due regioni separatiste: l’altra è Doneck) dicono che Kiev ha sparato colpi di mortaio, mitragliatrice e lanciagranate verso il loro territorio; le forze ucraine dicono che i separatisti hanno lanciato proiettili contro un asilo.
Niente di nuovo?
I dettagli non sono noti e, mentre scriviamo, non verificati. Sembrerebbe tuttavia che si tratti di episodi non così diversi, per portata, da quelli che gli osservatori internazionali registrano nell’area ormai da anni. Nonostante infatti la tregua raggiunta nel 2015, gli scontri nell’Ucraina orientale – benché di intensità inferiore – non si sono mai interrotti e le violazioni, assieme alle morti, sono quotidiane e ripetute.
Ma il contesto il diverso
A essere diverso rispetto al passato è però il contesto. La Russia ha ammassato oltre centomila truppe vicino al confine con l’Ucraina e l’Occidente – soprattutto gli Stati Uniti – teme un’invasione imminente.
Nei giorni scorsi Mosca ha annunciato il ritiro parziale delle unità schierate, ma i servizi di intelligence di America, Regno Unito ed Estonia sostengono il contrario: che il Cremlino avrebbe piuttosto rafforzato la presenza militare nei pressi della frontiera ucraina, mandando ulteriori combattenti e veicoli. Gli estoni – particolarmente sensibili alle azioni di Mosca, vista la vicinanza geografica – parlano di dieci nuovi battaglioni in movimento verso la frontiera e della possibilità di un attacco all’Ucraina che potrebbe permettere alla Russia di occupare un “terreno chiave”. Forse proprio Lugansk e Doneck.
Cosa potrebbe fare la Russia
Il Cremlino, cioè, potrebbe sfruttare la notizia degli attacchi alle regioni separatiste per giustificare l’ingresso dei suoi soldati in Ucraina, dando all’operazione militare lì concentrata la copertura di missione di pace. Nei fatti però, come nota la giornalista Marta Ottaviani su Twitter, porterebbe quelle due aree sotto il proprio controllo armato e potrebbe sfruttare la cosa anche per aumentare la sua leva nei negoziati sul non-allargamento della NATO. Le missioni di peacekeeping presunte rientrano negli strumenti di Mosca per la guerra ibrida – quella condotta con metodi non strettamente militari – assieme alla propaganda, gli attacchi cibernetici (l’Ucraina ne ha da poco subìto uno enorme) e le misure di sostegno economico e politico volte alla costruzione di fronti interni in precisi territori.
Il piano del Cremlino per Lugansk e Doneck
A Lugansk e Doneck il Cremlino è già presente. Oltre ad armare e finanziare i separatisti la Russia – come aveva scritto Katharine Quinn-Judge su Foreign Affairs – ha fornito passaporti a 650mila abitanti delle regioni; ha diffuso l’utilizzo della propria valuta, il rublo; ha autorizzato il commercio bilaterale e addirittura messo a punto un piano di sviluppo economico da 12 miliardi di dollari in tre anni, puntando al pareggio degli stipendi dei dipendenti pubblici di “territorio 1” e “territorio 2” (i nomi in codice per Lugansk e Doneck) con quelli della vicina città russa di Rostov.
Durante la conferenza stampa con il Cancelliere tedesco Olaf Scholz, il Presidente della Federazione russa Vladimir Putin ha detto che in Ucraina esiste una discriminazione sistemica contro la popolazione russofona, riferendosi proprio agli abitanti di Doneck e Lugansk, e che nel Donbass è in corso un “genocidio”. Si tratta di propaganda. Ma in un intervento di propaganda pubblicato su Formiche di Sergey Karaganov, scienziato politico russo e consigliere di Putin, si legge che “le truppe [russe] sono lì [al confine con l’Ucraina, ndr] per prevenire un altro assalto contro le repubbliche del Donbass. Se accadrà, l’esercito di Kiev sarà distrutto e quel che rimane del già fallito Stato ucraino probabilmente collasserà”. Non significa che l’aggressività retorica sia precorritrice di un’invasione, ma sono frasi da tenere a mente.
Perché l’invasione potrebbe essere sconveniente per il Cremlino
Alla Russia, in realtà, invadere l’Ucraina per annettere Doneck e Lugansk potrebbe non convenire. Lo stallo militare nel Donbass tra forze governative e separatisti è forse più utile ai suoi interessi geopolitici e di sicurezza: le permette di mantenere “impegnata” Kiev e distrarla dai propositi di avvicinamento all’Occidente; d’altra parte, né la Nato né l’Unione europea accetteranno mai tra i loro membri uno stato con una guerra al suo interno.
Questa settimana la Duma di stato – la camera bassa del Parlamento russo, semplificando – ha approvato una risoluzione per chiedere a Putin di riconoscere formalmente l’indipendenza delle repubbliche di Lugansk e Doneck. La mossa, se accolta, potrebbe costituire l’antefatto all’annessione dei due territori alla Russia. Anche perché i leader dei movimenti separatisti di Doneck e Lugansk – Denis Pushilin e Leonid Pasechnik, rispettivamente – fanno parte di Russia unita, il partito di Putin. Pushilin, pretendendo di parlare per tutti gli abitanti del Donbass, ha detto che la loro “patria storica” è la Russia e non l’Ucraina, uno “stato creato artificialmente”.
Il Cremlino ha fatto sapere di aver “preso nota” della richiesta della Duma, aggiungendo però di non voler procedere in tal senso perché comporterebbe una violazione degli accordi di Minsk del 2014-2015, quelli che avrebbero dovuto mettere fine al conflitto nell’Ucraina orientale ma che di fatto non sono mai stati rispettati. Non significa necessariamente che Putin non ordinerà l’ingresso armato in Ucraina, ma forse è una conferma di come Mosca preferisca lo status quo.
I separatisti filorussi nell’est Ucraina hanno accusato Kiev di averli attaccati. Uno sviluppo preoccupante, dato che Mosca potrebbe sfruttare la notizia per giustificare un intervento militare nella zona