L’industria culturale rappresenta, solo in Italia, il 6,1% del Pil e oltre 1,5 milioni di posti di lavoro: per l'Onu è un pilastro dello sviluppo sostenibile
L’industria culturale rappresenta, solo in Italia, il 6,1% del Pil e oltre 1,5 milioni di posti di lavoro: per l’Onu è un pilastro dello sviluppo sostenibile
Un simbolo della Palma d’Oro è visto sulla strada vicino al Palazzo del Festival sulla Croisette durante il coprifuoco nazionale a Cannes, Francia, 29 gennaio 2021. REUTERS/Eric Gaillard
In un divertente romanzo del 2018, La Capitale, dello scrittore austriaco Robert Menasse – una storia surreale ambientata negli uffici della Commissione europea – il protagonista, assunto come funzionario della Direzione Generale Istruzione e Cultura, nota subito che i suoi colleghi delle altre direzioni, quando parlano della sua, lo fanno “con il tono che avrebbe usato un broker di Wall Street parlando di un parente bislacco con l’hobby della numismatica”. Che questa battuta rifletta l’opinione corrente o mere esigenze narrative (probabilmente, un po’ entrambe le cose), la DG-EAC, come è conosciuta nel gergo brussellese, pur non avendo lo stesso peso politico delle sue consorelle che si occupano di agricoltura, commercio o concorrenza, gestisce comunque un pacchetto di competenze di tutto rispetto. Basti pensare a Erasmus, in campo educativo, con i suoi 3 miliardi all’anno e quasi un milione di studenti coinvolti nel 2019, o a Europa Creativa, il programma di sostegno alla cultura, che, grazie anche alle pressioni del Parlamento di Strasburgo, ha visto aumentare in misura consistente il proprio budget e disporrà, nel bilancio Ue 2021-27, di ben 2,24 miliardi di euro, destinati al sostegno delle imprese culturali e creative. A cui ovviamente andranno aggiunti i fondi del Next Generation EU.
E non è una novità di quest’anno: da tempo Europa Creativa sostiene una fitta rete di operatori culturali negli Stati membri che, grazie ai fondi europei, realizzano progetti nei vari campi, dallo spettacolo alle arti visive, dalla musica al cinema e audiovisivo. In un comparto cioè, quello delle imprese culturali e creative, che, non è inutile ricordarlo, rappresenta solo in Italia il 6,1% del Pil e oltre 1 milione e mezzo di posti di lavoro.
Insomma, ironie a parte, il ruolo dell’Ue nel settore della cultura è ampiamente riconosciuto e ha un peso non trascurabile nella politica interna dell’Unione. Meno scontato, invece, è che l’Ue possa o voglia dotarsi di una propria politica culturale “esterna”, cioè rivolta ai Paesi non Ue.
Si tratta di un obiettivo recente, lanciato, non senza qualche resistenza, dall’allora Alta Rappresentante Federica Mogherini nel 2016, attraverso una “comunicazione congiunta” intitolata “Verso una strategia Ue per le relazioni culturali internazionali”: un documento ambizioso che per la prima volta rivendica la necessità di includere la cooperazione culturale tra le attività dell’Unione nei Paesi terzi, in particolare lungo tre direttrici: il sostegno alle imprese culturali locali come motore di sviluppo sostenibile; il dialogo culturale come strumento di pace e comprensione tra i popoli; la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale.
Il documento prevede tra l’altro che le 139 Delegazioni Ue agiscano come punto di raccordo tra i paesi membri anche in materia di politica culturale e istituiscano al proprio interno “punti di contatto culturali”. Nei fatti, però, il personale del SEAE dedicato alla cultura si conta sulle dita di una mano e l’iniziativa è rimasta per lo più affidata alla buona volontà di singoli Capi Delegazione e, a volte, osteggiata da altri funzionari che, proprio come quelli evocati nel romanzo di Menasse, considerano l’attività culturale come un inutile passatempo. Ciononostante, il dossier ha fatto notevoli passi avanti negli ultimi quattro anni e sta entrando poco a poco a far parte del lavoro quotidiano delle “ambasciate” europee.
L’associazione EUNIC
A dire il vero, però, una rete culturale estera dell’Unione esiste già da tempo ed è quella costituita da EUNIC, l’associazione che riunisce le istituzioni europee preposte alle relazioni culturali (per intenderci, il Goethe Institut per la Germania, il Cervantes per la Spagna, i nostri Istituti di cultura etc.): 36 membri in tutto su 27 Paesi membri (questo perché alcuni Paesi ne hanno più di uno mentre il British Council, dopo la Brexit, ha mantenuto lo status di “membro associato”). Nata nel 2006 su iniziativa di un piccolo gruppo di istituzioni, la rete EUNIC si è progressivamente allargata, sia all’interno dell’Unione che nei Paesi terzi, fino a comprendere oltre 125 gruppi locali o clusters in 90 diversi Paesi. Anche le sue attività si sono andate via via rafforzando: se all’inizio i clusters si limitavano a organizzare piccole rassegne locali nel campo dell’audiovisivo e dell’editoria (tipicamente, i vari “festival del cinema europeo”) ora gestiscono diversi progetti finanziati dai membri e dalla Commissione stessa. Il più importante è quello degli “Spazi europei della cultura”, lanciato un paio di anni fa nell’ambito di Europa Creativa proprio per testare, attraverso EUNIC, la creazione di partenariati con il settore culturale locale che coinvolgano tutti gli attori europei presenti sul terremo.
La caratteristica di EUNIC è quella di non essere un’agenzia comunitaria ma una semplice associazione senza fini di lucro, di diritto belga, con sede centrale a Bruxelles. Questo, se da un lato le permette di muoversi con un’agilità che sarebbe impensabile per un organismo comunitario, dall’altro la fa però dipendere dai contributi associativi e volontari dei suoi membri, non sempre particolarmente generosi. L’altra peculiarità è quella di mettere sotto lo stesso tetto Ministeri, agenzie ed entità formalmente non governative. Una diversità che, se a volte crea qualche problema di linguaggio comune, si rivela alla fine un fattore di dinamismo.
Dunque, sulla carta, le idee e le risorse non mancano, anzi, mettendo insieme la rete delle Delegazioni Ue e quella di EUNIC, la “potenza di fuoco” della politica culturale europea nei paesi terzi sarebbe superiore a quella degli Usa o della Cina. Come sempre, però, quando si parla di Ue, il problema non sono tanto i mezzi quanto la volontà politica. Ad oggi, la cultura rimane una competenza saldamente nazionale e le ragioni della concorrenza tra paesi membri tendono a prevalere su quelle della cooperazione. O, detto in termini più positivi, occorre far convivere la naturale tendenza alla competizione tra programmi nazionali di promozione culturale e linguistica con un approccio fondato sulla collaborazione e la messa in comune di idee e risorse. Come? Non si tratta certo di dissolvere tutto in un indistinto e sciapo amalgama europeo, obiettivo che non appassionerebbe nessuno, ma di distinguere pragmaticamente tra due sfere d’azione: da un lato, la promozione culturale intesa come “vetrina” del Paese e diplomazia del soft power, dall’altro i partenariati di cooperazione culturale con i Paesi terzi. La prima, in mano agi Stati, la seconda aperta a una ampia collaborazione europea.
D’altronde, una delle cose che ci ha mostrato quest’anno di pandemia è la vulnerabilità delle imprese culturali, in Europa e nel resto del mondo. Al tempo stesso, si sono accelerati processi di de-materializzazione della cultura attraverso il digitale di cui dobbiamo ancora capire la portata ma che, consentendo una trasferibilità immediata di eventi ed esperienze, aprono grandi possibilità a nuove collaborazioni internazionali e possono essere una grande occasione di rilancio per il mondo della cultura, in una logica di autentico dialogo e scambio tra pari che costituisce l’essenza delle “relazioni culturali internazionali”. Dando così sostanza a uno degli obiettivi dell’Agenda Onu 2030, quello della “cultura come pilastro dello sviluppo sostenibile”, messo drammaticamente alla prova dalla pandemia ma rispetto al quale l’Unione europea può, se lo vuole, svolgere un ruolo decisivo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
L’industria culturale rappresenta, solo in Italia, il 6,1% del Pil e oltre 1,5 milioni di posti di lavoro: per l’Onu è un pilastro dello sviluppo sostenibile
Un simbolo della Palma d’Oro è visto sulla strada vicino al Palazzo del Festival sulla Croisette durante il coprifuoco nazionale a Cannes, Francia, 29 gennaio 2021. REUTERS/Eric Gaillard
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