Nuovo episodio terribile di violenza di gruppo in India, stavolta nel distretto del Birbhum, Bengala Occidentale, a meno di 200 km da Calcutta. La componente tribale del caso rischia però di farci perdere il succo della questione.

Dei numerosi casi di violenza di gruppo dei quali abbiamo avuto notizia in questi mesi – e per i quali vale la riflessione sulla narrazione degli eccessi scritta qualche tempo fa – quest’ultimo mi ha particolarmente colpito a livello emotivo. Per due anni ho vissuto proprio in quel distretto, a Santiniketan (una sorta di isola felice delle arti e delle tradizioni locali del Bengala), e leggendo la ricostruzione data dai media indiani l’effetto immedesimazione è inevitabilmente amplicficato.
Una ragazza di 20 anni della comunità tribale Santhali si frequentava da cinque anni con un uomo non appartenente alla medesima comunità. Quando l’uomo si è recato ufficialmente al villaggio di Labhpur, per chiedere in sposa la ragazza, il consiglio del villaggio – panchayat – si è riunito e ha decretato che la relazione, secondo le leggi parallele applicate da questa assemblea eletta democraticamente, era illegale; la pena pecuniaria da pagare, è stato deciso, ammontava a 50mila rupie. Una cifra enorme, pari a quasi 600 euro o – prendendo ad esempio la mia esperienza personale – all’affitto di un bilocale con enorme giardino per dieci mesi, una cosa che a Santiniketan possono permettersi solo i ricchi e, quindi, gli occidentali.
La famiglia della ragazza, riporta la stampa indiana, non poteva permettersi di pagare la propria metà e quindi, sempre secondo le ricostruzioni basate sulla testimonianza della donna, il capo del consiglio avrebbe ordinato uno stupro di gruppo, al quale avrebbero preso parte almeno dieci uomini tra i 18 e i 50 anni la sera di lunedì scorso.
Il giorno dopo la famiglia della vittima, che è stata ricoverata in ospedale, ha sporto denuncia alle autorità. Sono scattati gli arresti e gli interrogatori, per arginare il danno politico la chief minister del Bengala Occidentale Mamata Banerjee (Trimanool Party) ha preteso la testa del capo della polizia del Birbhum, la Corte suprema indiana suo motu ha chiesto un rapporto dalle autorità giudiziarie locali.
La gravità e i contorni raccapriccianti della vicenda mi sembrano palesi, non necessitano di ulteriori evidenze. La cosa interessante, a livello di effetto sull’opinione pubblica, è l’accento messo sulla comunità tribale dei Santhali, che – se tutto sarà confermato – si è macchiata di un crimine che supera se possibile il livello di assurdità e crudeltà raggiunto nel noto stupro di Delhi.
Il rischio però, parlando dell’opinione pubblica indiana e del lavoro fatto dai media locali, è considerare la barbarità dell’evento un tratto distintivo delle realtà tribali indiane, fare l’equazione tribali=selvaggi in un processo di autoassolvimento del resto dell’India “per bene”. Si tratterebbe di un errore enorme che andrebbe a rafforzare la convinzione – errata – che i diritti e la sicurezza delle donne siano un problema solo tra le comunità non urbanizzate, povere e (nel caso specifico dei Santhali) non induiste. Mentre abbiamo visto, nei mesi, che la discriminazione e la barbarie a cui sono soggette le donne in India attraversa tutti gli strati sociali, le religioni, le caste, le etnie. È un problema panindiano, un problema culturale che si deve risolvere con strumenti culturali, non inasprendo le pene per gli stupratori.
Molti amici che hanno vissuto o vivono in India mi hanno scritto sconfortati e frustrati, l’ennesimo episodio mina anche l’umore del più ottimista tra gli appassionati di India. Penso però che ci siano alcuni aspetti positivi che, tirati fuori dal baratro dello sconforto, è giusto vadano esaltati.
La famiglia ha denunciato il crimine. Alcuni mesi fa sarebbe stato impensabile, invece è successo ancora. Sta succedendo sempre di più e la caduta dell’omertà è il primo passo necessario al cambiamento.
I media ne stanno parlando. Molti ne parlano male, alcuni strumentalizzano la vicenda per fini politici, ma possiamo dire che il tabù degli stupri, mediaticamente parlando, è stato definitivamente abbattuto. Parlarne non può che generare, per gradi, una maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica, anche se c’è il rischio di diffondere la paura. La vera sfida, in questo senso, è affidata alle nuove generazioni, che avranno il compito di debellare il terrore e creare una società più giusta. È un processo che in alcune fasce importanti delle élite urbane – universitari, ad esempio – è già cominciato e nel quale non si può che riporre enorme fiducia.
Infine, una critica istintiva ai nostri giornali, che calcano la mano sulla sensazionalizzazione del dolore in una maniera francamente imbarazzante (per chi ancora riesce a imbarazzarsi). Su Repubblica online, ad esempio, leggo che lo stupro sarebbe stato eseguito “su un palcoscenico”: un dettaglio che si sposa con la descrizione dei tribali=selvaggi che, nella narrazione dell’India fatta in Italia, risulta totalmente plausibile.
Da stamattina provo a trovare conferme del “palcoscenico” sui media indiani e internazionali ma, fino ad ora, non ne ho trovato traccia. Il rapporto ufficiale degli organi giuridici deve ancora arrivare e, al momento, il Telegraph (quotidiano di Calcutta, la fonte più autorevole per i fatti del Bengala Occidentale in lingua inglese) indica solamente il rifiuto da parte della popolazione Santhali di Labhpur di parlare coi giornalisti. Nessuno ha visto niente, nessuno vuole dire niente, a quel livello vige ancora l’omertà.
Considerando però che ho conosciuto alcuni Santhali e – suonerà sconcertante – ma molti hanno il cellulare, guardano la tv, giocano a cricket, vanno a scuola e guidano motocicltte (al pari del resto degli indiani), l’ipotesi che in una socità pudica come quella indiana si possa inscenare uno spettacolo macabro come uno stupro pubblico (affiancato, in Italia, alle pratiche dei talebani) mi sembra decisamente remota.
Se qualcuno trovasse delle conferme è pregato di segnalarle nei commenti e, nel caso, molto del mio ottimismo andrebbe perso nello sconforto.
*Aggiornamento: @CharletBrown mi segnala questo articolo del Times of India (sul quale, per esperienza, riserbo forti dubbi sull’autorevolezza) che parla di una “platform”. Per ora è l’unica fonte ed è una pessima notizia.
* 25-1-14: Ormai si leggono varie ricostruzioni, ognuno in India dice la sua. C’è chi dice fosse una scappatella, chi ribadisce la versione della relazione di cinque anni. Pare però che l’uomo fosse un muratore impiegato nella costruzione di una scuola vicino al villaggio. Il Telegraph, che reputo il giornale più autorevole circa questa vicenda, oggi esce con dichiarazioni terribili rilasciate dalle donne del villaggio, che vogliono impedire alla vittima di tornare poiché “ha rovinato la reputazione del villaggio. Ora nessuno vorrà più sposarsi con qualcuna di noi o delle nostre figlie”. Qui.
*26-1-14: Oggi è uscito un reportage della Bbc, con foto e interviste, in cui pare abbastanza chiaro che la storia del palcoscenico in bambù era una bufala del Times of India e, per la teoria dei vasi comunicanti, anche di Repubblica.
Nuovo episodio terribile di violenza di gruppo in India, stavolta nel distretto del Birbhum, Bengala Occidentale, a meno di 200 km da Calcutta. La componente tribale del caso rischia però di farci perdere il succo della questione.