La Gran Bretagna dovrà decidere se vuole restare nell’Ue o meno.

Dopo uno storico referendum, nel Regno Unito ne incombe già un altro. Il 18 settembre, il 55% dei residenti over 16 in Scozia ha detto “No” all’indipendenza, preferendo rimanere cittadini britannici. Si è così preservata l’unione tra le terre a nord e quelle a sud del Gretna Green sancita oltre 300 anni fa. Almeno per ora.
Il primo ministro britannico Cameron ha commentato: “Sono felice. Assistere alla fine del nostro Regno Unito mi avrebbe spezzato il cuore”. Tuttavia il referendum in Scozia potrebbe non essere l’ultimo che il premier dovrà affrontare.
Se il partito conservatore di Cameron dovesse vincere le elezioni politiche del maggio 2015, il primo ministro dovrebbe tenere fede alla promessa di indire un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’EU nel 2017. Una consultazione alla quale né i laburisti né i liberaldemocratici sono favorevoli, a meno che Bruxelles non intacchi ulteriormente la sovranità nazionale.
Il referendum europeo offrirebbe due opzioni: un “Sì” per uscire dall’Unione o un “No” per rimanervi. La scelta “Sì, a condizione che…” non è prevista, benché Cameron abbia promesso di rinegoziare i termini dell’adesione del Regno Unito nel periodo tra le elezioni e il referendum, una mossa per convincere Bruxelles a restituire all’isola un certo grado di sovranità, pena l’abbandono.
Una tattica che potrebbe suscitare reazioni negative nei palazzi dell’Ue. L’Unione non vorrà fare apparire l’uscita di uno stato membro un processo semplice, anche se i Britannici non suscitano molta simpatia in Europa. Secondo un recente sondaggio, oltre la metà dei Francesi è a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Ue, e, secondo un recente articolo uscito su Der Spiegel, “nel continente europeo, i Britannici sono piuttosto tollerati che apprezzati”.
Annunciato nel 2013, il referendum rappresentava perlopiù una reazione politica all’ascesa dell’UKIP, il partito indipendentista britannico fondato negli anni Novanta con l’obiettivo di traghettare il Paese fuori dall’Ue. Dopo scarsi risultati, il successo è arrivato all’improvviso, con la conquista del 27,5% alle elezioni europee di maggio 2014, la percentuale più alta di tutti gli altri partiti – e un severo ammonimento per i conservatori di Cameron.
La popolarità dell’UKIP riflette la corrente di ostilità sviluppatasi nel Paese verso l’Unione, soprattutto per le crescenti intromissioni nella vita di tutti i giorni. L’insistenza sulla concessione del diritto di voto ai detenuti per esempio, o le interferenze nelle modalità con le quali le società della City conducono i loro affari, sono due temi che hanno suscitato proteste vivaci.
Inoltre, gran parte della popolazione britan nica vanta ancora la saggezza nazionale di aver rifiutato l’euro, e di rimanere fedele alla sterlina. Tuttavia, i sondaggi dimostrano una maggioranza favorevole alla permanenza nell’Ue in caso di rinegoziazione dei termini, senza conoscere le eventuali nuove condizioni.
Ma le posizioni variano di molto se si esclude la rinegoziazione dei termini. Da un sondaggio dello scorso maggio, il 54% dei Britannici risultava favorevole alla permanenza e il 37% contrario. Un mese dopo, un altro sondaggio riportava risultati opposti: il 37% favorevole contro il 48%.
Paradossalmente, le possibilità di vittoria dei conservatori alle prossime elezioni – e quindi l’eventualità di un referendum sull’Ue – sono diminuite dopo il “No” all’indipendenza scozzese. A Westminster, tra i deputati conservatori figura soltanto uno scozzese (su un totale di 59), mentre tra i laburisti gli Scozzesi si attestano a 41.
In un Regno Unito senza la Scozia, il partito di Cameron sarebbe stato favorito nella competizione elettorale del 2015. Ora i risultati sono meno scontati. D’altro canto, considerate più europeiste le posizioni della Scozia rispetto al resto del Paese, la decisione di rimanere nel Regno Unito ha aumentato le probabilità di successo del “Sì” sulla permanenza nell’Ue.
In ogni caso, una Scozia indipendente non avrebbe escluso la sua possibile fuoriuscita dall’Ue – come quella del nuovo Regno Unito – e dovendo ripresentare la domanda di adesione non avrebbe gradito l’adozione della moneta unica imposta ai nuovi Stati membri. Non dimentichiamo che i separatisti volevano la sterlina, la regina, la BBC e il servizio sanitario nazionale, pretese che hanno suscitato interrogativi sulla natura dell’agognata indipendenza.
Non sono state ragioni economiche a determinare la vittoria del fronte del “No” in Scozia, e tanto meno lo saranno in un’eventuale consultazione sull’Europa. Le analisi hanno ampiamente dimostrato che l’uscita dall’Ue avrebbe un impatto molto limitato sul Pil del Regno Unito. Innanzitutto la bilancia commerciale ha subito radicali cambiamenti nell’ultimo decennio. Mentre nel 2002 gli scambi commerciali tra il Regno Unito e l’Ue costituivano il 59% del totale, nel 2012 la percentuale era scesa al 48%. Le potenzialità di crescita sono passate dalle economie sviluppate a quelle emergenti.
In ultima analisi, la decisione riguardo l’Europa sarà tutta politica: nei 41 anni dall’adesione della Gran Bretagna all’allora Comunità europea, i cittadini britannici si sono veramente affezionati all’idea di essere europei? O piuttosto è ancora molto diffusa la convinzione che il parlamento nazionale di Westminster sappia cosa è meglio per loro?
Nessuno Stato membro ha mai lasciato l’Ue, ed è dal 2009, con il Trattato di Lisbona (articolo 50), che sono contemplate procedure per il recesso volontario. Gli stati che lasciano l’Unione europea si addentrano in un territorio sconosciuto. È probabile che la paura dell’ignoto, fattore importante nell’esito del referendum in Scozia, condizioni il risultato di un’eventuale consultazione sulla permanenza in Europa. Insomma, non è ancora giunto il momento di dire addio al Regno Unito.
La Gran Bretagna dovrà decidere se vuole restare nell’Ue o meno.