Uccisi e costretti a fuggire dai luoghi che li accolsero nel 1915. L’ISIS rinnova l’orrore del “Grande Male”, l’olocausto voluto dai turchi costato più di un milione e mezzo di vittime.
“Siamo dovuti scappare nella notte, come i nostri nonni un secolo fa da Sis (Turchia), siamo scappati portandoci via solo i vestiti che avevamo indosso. Di nuovo noi armeni siamo perseguitati e uccisi.” Meno di un anno fa Astricht Marganjian, con atre centinaia di armeni aveva dovuto abbandonare la cittadina di Kesab, in Siria al confine con la Turchia. Lo scorso mese di marzo, dopo due giorni di battaglia, i miliziani del Fronte al-Nursa, conquistarono la città costringendo alla fuga i 2.000 armeni che la abitavano. Dopo due mesi l’esercito di Bashar al-Assad liberò Kesab. “La casa e il negozio – racconta Astricht – erano completamente distrutti. Per la paura che quelle bestie tornassero siamo scappati in Libano. Ora cerchiamo di ricominciare.”
Il 24 aprile sarà ricordato in tutto il mondo il centenario del genocidio armeno. Un secolo dopo questo popolo è ancora massacrato in Siria e ora, nel disinteresse collettivo, i loro luoghi della memoria e sacri sono distrutti. Così, è passata inosservata la devastazione, da parte dell’ISIS, della Chiesa dei Martiri Armeni a Deir ez-Zor, nella Siria orientale. La città, il principale luogo di arrivo per i deportati, ospitava il memoriale che commemorava il genocidio di più di un milione e mezzo di armeni nel 1915.
Medz Yeghern (Il Grande Male in armeno), perpetrato dal Governo Ottomano, è stato il primo genocidio del Novecento. A Deir ez-Zor, l’Auschwitz degli Armeni, era stato costruito il sacrario delle vittime che ora non esiste più, cancellato da una nuova ferocia. La cancellazione di un simbolo, però, è diventata essa stessa il simbolo della nuova tragedia e della nuova diaspora che vive la comunità armena in Medio Oriente.
Prima della guerra civile gli armeni di Siria erano più di 150.000, la maggior parte viveva ad Aleppo e nell’area di Kesab. Una minoranza rispetto ai ventitré milioni di abitanti del Paese, ma una tessera significativa di quel ricco mosaico di culture e religioni, cristiane e musulmane, che componeva il popolo siriano. Oggi si stima che non più di 15.000 armeni vivano ancora in Siria e almeno 1.000 sono caduti nei quattro anni di conflitto.
Kesab è la città simbolo della sopravvivenza. La caduta, anche se temporanea della città, ha assunto pertanto un profondo significato. “È una delle aree di più antica presenza della comunità, che qui arriva nell’XI secolo d.C., durante il regno armeno di Cilicia – ha dichiarato il professor Geukjian – Altre zone in Siria erano antichi insediamenti armeni, ma i nel corso dei secoli la maggioranza si è trasferita nelle città, come Aleppo, o sono stati assimilati nella più ampia comunità cattolica, o sono emigrati. Solo Kesab ha mantenuto la sua identità, in città si parla armeno e in armeno sono anche le insegne dei negozi.”
Se Kesab è il simbolo della resistenza Aleppo è la nuova città martire. È nelle stradine della città vecchia, un tempo riempite dalle botteghe degli orafi armeni, che la comunità ha pagato il prezzo più elevato al conflitto. Molte le vittime tra gli armeni e la maggior parte dei sopravvissuti sono fuggiti.
Aleppo dal luglio del 2012 è spaccata in due. La divide una frontiera invisibile di quasi venti chilometri dove gli scontri sono quotidiani e regnano i cecchini. Separati da questo confine vivono famiglie e amici, che difficilmente riescono a incontrarsi e a comunicare. Due mondi divisi, dove i pochi civili rimasti sono uniti dalla paura dei cecchini. Qui la vita quotidiana è fatta di corse veloci alla ricerca di acqua e cibo o per raggiungere la scuola e il lavoro.
Questa linea di morte attraversa proprio i vecchi quartieri armeni della città. “I miliziani – racconta Agop, fuggito da Aleppo in Libano – posizionano carcasse di automobili e blocchi di cemento di traverso sui marciapiedi. Così, mentre cammini sei costretto a uscire allo scoperto e i cecchini fanno festa.”
Vasquen Zinidjian, uno degli armeni che vive ancora ad Aleppo, per telefono ci racconta che per andare e tornare da casa, nel quartiere di al-Halabi Suleiman, deve attraversare almeno cinque strade infestate dai cecchini. “Ogni volta prima di muovermi prego: Dio se mi colpiscono fammi morire subito, non voglio restare ferito ad agonizzare sulla strada e che qualcuno rischi la vita per aiutarmi.”
“Cerchiamo di difenderci in tutti i modi – continua Vasquen – nelle strade più grandi abbiamo messo degli autobus per farci da scudo, nei vicoli sistemiamo dei grossi tendoni per cercare di non essere visti. Questi stratagemmi non servono a granché. Ieri un uomo è stato ucciso proprio davanti a me mentre sollevava la tela per entrare nel suo portone.”
A scandire la giornata ci sono poi le bombe sganciate dagli elicotteri del governo, i colpi di mortaio dei ribelli e costante il rischio delle mine e degli ordigni inesplosi. “La vita è impossibile. Un minuto tutto sembra tranquillo e poi improvviso si scatena l’inferno. Ogni mattina – continua Vasquen – aspetto di vedere qualcuno per la strada prima di uscire, un modo stupido di vincere la paura.”
Tragicamente sembrano essere i bambini quelli che si adattano meglio alla guerra. “Correvo sempre per andare a scuola – dice sorridendo il figlio dodicenne di Agop – percorrevo solo strade che conoscevo e lungo le quali sapevo dove nascondermi. In alcune vie passavamo uno per volta, correndo a zig-zag, per rendere la vita più difficile ai cecchini. Eppure, Ahmed il mio compagno di banco è stato colpito.”
La tragedia armena non si ferma ad Aleppo. Nell’ultimo anno a Damasco una chiesa della comunità è stata colpita dai mortai dell’Esercito Libero Siriano, i ribelli “buoni” che combattono Bashar al-Assad finanziati e armati dagli americani e dagli arabi sunniti del Golfo. I colpi hanno ucciso due bambini. A Raqqa i combattenti salafiti hanno distrutto la Chiesa dei Martiri, nella provincia di Damasco è stato colpito uno scuolabus e due scolari armeni sono morti.
L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma Agop confessa un’altra grande paura. “Sono centinaia i combattenti turchi, discendenti di quelli che hanno tentato di annientarci nel 1915, che si sono uniti ai miliziani di al-Qaeda e di ISIS che attaccano la chiesa armena. Stiamo davvero rivivendo l’incubo dei nostri antenati.”
Oggi gli eredi dei cristiani armeni, che trovarono scampo in Siria, sono di nuovo costretti a fuggire in Libano, in Europa o in America e la chiesa dove le spoglie delle vittime avevano trovato riposo, è stata distrutta nella nuova guerra. Sulle terre dove furono massacrati gli armeni si consumano nuove stragi, e come un secolo fa, il mondo sembra restare immobile.
PER UNA BREVE STORIA DEL GENOCIDIO ARMENO DEL 1915, LEGGI QUI.
@MauroPompili
Uccisi e costretti a fuggire dai luoghi che li accolsero nel 1915. L’ISIS rinnova l’orrore del “Grande Male”, l’olocausto voluto dai turchi costato più di un milione e mezzo di vittime.