Premesso che di Silvio Berlusconi ce n’è uno (e tutti gli altri son nessuno), la condanna a quattro anni confermata ieri dalla Cassazione e la tragicomica reazione delle falangi dell’Esercito di Silvio mi hanno fatto tornare alla mente un episodio indiano di qualche tempo fa.

Nel 2011 in India arrivano i primi arresti per il megascandalo passato alla storia indiana col nome di 2G scam. Brevemente: nel 2008 il governo indiano, tramite il Ministero delle Telecomunicazioni, mette all’asta una serie di licenze per operare servizi di telefonia mobile sul territorio nazionale; una gara d’appalto alla quale partecipano i big delle telecomunicazioni indiane, alcuni in joint venture con compagnie straniere.
Al tempo il mercato della telefonia mobile era una prateria vergine, un Far West dell’imprenditoria pronto ad essere preso d’assalto nella frenesia della modernità di un telefono a portata di mano che non solo metteva in connessione con gli altri, ma anche con la Rete. Parlo per esperienza personale: connettersi a internet via cellulare da una baita ai piedi dell’Himalaya o – quasi giornalmente – in mezzo alla vegetazione selvaggia del Bengala occidentale, è un prodigio della tecnologia che si apprezza solo tornati nel mondo moderno.
Insomma, c’erano tanti soldi da fare e l’amministrazione indiana contava di assicurarsi grandi profitti dalla vendita di quelle licenze. Ma alcuni anni dopo, conti alla mano, alle casse dello stato mancavano qualcosa come 5,2 miliardi di dollari, evaporati nel sistema di corruzione e clientelarismo architettato dal ministro delle Telecomunicazioni del tempo, il signor A. Raja, esponente di spicco del Dravida Munnetra Kazhagam (Dmk), uno dei partiti del Tamil Nadu.
Raja, assieme a decine di implicati nella truffa, è costretto a dimettersi e finisce in carcere il 2 febbraio del 2011, scontando una pena detentiva di 15 mesi finché la Corte suprema non gli accorda la libertà su cauzione.
Uscito dal celebre carcere di Tihar, nei pressi di Delhi, a differenza del resto dei condannati e rilasciati nel caso 2G scam – ritornati alla vita pubblica in sordina, testa bassa, nessuna dichiarazione – Raja organizza un party nella sua residenza a Delhi, con tanto di caroselli, torta con candeline, cori e abbracci dei suoi sostenitori, coriacei nella convinzione che il politico del Tamil Nadu fosse completamente innocente nonstante le prove schiaccianti a suo carico e un’indiscutibile sentenza della Corte suprema (la Cassazione indiana).
Trattando la vicenda, imparai alcune cose sulla politica indiana: un’arte fondata largamente sul personalismo, sul rapporto che sfiora l’idolatria (e a volte la supera) che lega gli elettori agli eletti e sulla concezione che l’alternanza democratica rappresenti quasi esclusivamente un asfissiante conto alla rovescia, accaparrarsi tutto il possibile prima che scada il tempo.
Roba che alla fine torna utile anche altrove.
Premesso che di Silvio Berlusconi ce n’è uno (e tutti gli altri son nessuno), la condanna a quattro anni confermata ieri dalla Cassazione e la tragicomica reazione delle falangi dell’Esercito di Silvio mi hanno fatto tornare alla mente un episodio indiano di qualche tempo fa.