Alcune ore dopo le esplosioni di Bodh Gaya, tramite il proprio profilo Twitter ufficiale (@IndianMujahidin), gli Indian Mujahidin hanno rivendicato la paternità dell’atto terroristico, annunciando Mumbai come prossimo obiettivo sensibile.

La National Investigation Agency indiana – l’agenzia specializzata in anti-terrorismo fondata subito dopo l’attacco di un commando di terroristi pakistani a Mumbai nel 2008 – ha già iniziato le indagini tracciando la provenienza del tweet inviato dal Canada. Tramonta quindi l’ipotesi maoista di cui parlavamo qualche giorno fa, a conferma del riflesso pavloviano dell’India nei confronti dei naxaliti.
La questione islamica in India, arrivandoci due anni fa sostanzialmente da novellino di cose indiane, è uno degli aspetti più tragici, complessi ed affascinanti di questo paese.
Dopo oltre 300 anni di dominazione persiana con la dinastia Moghul, l’arrivo degli inglesi nel 1857 riuscì ad incrinare la sostanziale armonia e convivenza che aveva contraddistinto il rapporto tra i dominatori e i dominati, uno dei tratti più distintivi della tendenza indiana all’inclusione, ad influenzare e farsi influenzare da diverse culture.
L’esempio più straordinario rimane la peculiarità linguistica: dall’incontro tra i vernacoli indiani e l’urdu – derivato da turco e persiano, parlato dalle legioni multietniche dell’esercito dell’Impero – nacque quello che gli studiosi chiamarono hindustani, una lingua franca parlata indistintamente da hindu e musulmani sotto i Moghul.
Gli inglesi, in un’applicazione linguistica della teoria divide et impera, confermarono alla macchina burocratica del Raj Britannico l’utilizzo della lingua urdu – scritta in caratteri arabi – escludendo di fatto gli hindu dalla sfera amministrativa e costringendo ad un ritorno alla “purezza urdu” dell’hindustani convenzionale parlato per le strade, per intenderci.
Un affronto alla maggioranza della popolazione locale, la quale si identificava con la scrittura in devanagari, quella ancora utilizzata oggi nella hindi.
È interessante notare come sostanzialmente le due lingue siano molto molto simili, tanto che le colonne sonore delle hit di Bollywood sono spesso cantate in urdu (che è come la hindi, solo con preponderanza di termini derivati dal persiano invece che dal sanscrito).
Con la dolorosa divisione interna della Partition – migrazioni di musulmani nel nuovo territorio del Pakistan e di hindu entro i confini dell’odierna India – e lo status di Nemico Storico del Pakistan, l’Islam e la popolazione musulmana oggi vengono spesso discriminati, come una sorta di serpe in seno pronta ad attaccare e – secondo le ideologie dell’estremismo hindu care alla destra locale del Bjp – minare la “tradizione hindu”. Che, come abbiamo visto, in 300 anni si era perlomeno annacquata.
Al di là delle dispute filosofiche ed identitarie, il rigurgito discriminatorio che vivono oggi i musulmani in India è storia recentissima. C’è una vasta letteratura – Hasan Manto, tra i miei preferiti – che racconta di come solo sessant’anni fa pensare una società segregata tra hindu e musulmani in India fosse fantascienza.
In India si parla di ghettizzazione dei musulmani, costretti a chiudersi in zone ben definite delle principali metropoli in seguito a pogrom iniziati negli anni ’80 dalle squadracce dell’estremismo hindu. Una delle conseguenze della discriminazione è proprio il terrorismo interno, fomentato da contatti con le cellule pakistane di Lashkar-e-Taiba, reazione violenta alle vessazioni sociali che si alimenta pescando tra le sacche di povertà nelle metropoli o negli stati più rigogliosi come il Gujarat, dove l’amministrazione del Bjp guidata da Narendra Modi si vanta di percentuali di crescita – difficili da confermare – intorno al 15 per cento. Una ricchezza dalla quale, gli contestano i critici, sono stati lasciati fuori i contadini e gli strati sociali più indigenti: in larga maggioranza musulmani.
Altro problema incisivo è la rappresentanza politica. I musulmani, seppur siano almeno il 15 per cento della popolazione indiana (dati vecchi di diversi anni parlano di 177 milioni, quindi probabilmente molti di più, considerando il tasso di fertilità che ha fatto crescere la popolazione islamica del 200 per cento in quarant’anni) e in alcuni stati come Uttar Pradesh, Bihar e Bengala Occidentale rappresentino una cospicua minoranza preziosa a fini elettorali, nella politica dell’India di oggi che fiorisce di partitini locali ed identitari molto potenti non sono ancora riusciti a dar vita a un grande partito islamico moderato capace di portare ai piani alti di Delhi le proprie istanze specifiche. Condizione che, con le dovute approssimazioni, sono riusciti invece a ricreare i dalit col Bsp di Mayawati in Uttar Pradesh, i bengalesi anti-comunisti col Trinamool Party di Mamata Banerjee, i tamil nel sud.
I musulmani vengono quindi sistematicamente sedotti ed abbandonati dai grandi partiti – il Congress in particolare – prodighi di promesse ed illusioni in clima pre elettorale, smemorati e svianti a cabine chiuse.
Una riflessione profonda ed un rapporto più sano con l’imponente minoranza islamica – l’India è il terzo paese musulmano al mondo dopo Indonesia e Pakistan – pare l’unica via per assicurare all’India un futuro di pace e sradicare il pericolo del terrorismo di matrice islamica autoctono.
Alcune ore dopo le esplosioni di Bodh Gaya, tramite il proprio profilo Twitter ufficiale (@IndianMujahidin), gli Indian Mujahidin hanno rivendicato la paternità dell’atto terroristico, annunciando Mumbai come prossimo obiettivo sensibile.