Il Messico insegna cosa succede quando lo Stato di diritto viene meno.
Ha tutti gli ingredienti di un romanzo giallo, ambientato in un paese corrotto in cui la polizia collude con le bande criminali, con conseguenze nefaste.
Un sindaco ordina di attaccare dei liceali per impedire che interrompano un comizio tenuto dalla moglie, forse legata a uno dei più potenti cartelli della droga. Poliziotti locali al soldo del cartello consegnano gli studenti nelle mani dei sicari. E infine il presidente – volto nuovo di un vecchio partito autoritario –ha aspettato più di un mese prima di incontrare i familiari delle vittime e non ha ancora visitato la scena del crimine. Roba da fiction. Eppure in Messico questa è la realtà quotidiana per milioni di persone.
Ciò che è successo a Iguala – cittadina nello Stato di Guerrero, a due ore da Città del Messico – è da non credersi. Il 26 settembre, su ordine del sindaco, poliziotti locali hanno fatto fuoco su un gruppo di studenti disarmati che avevano requisito dei bus e raccoglievano fondi per partecipare a una manifestazione nella capitale in ricordo della strage di studenti avvenuta nel 1968. Sei persone sono morte nei primi scontri, mentre 43 studenti si pensa siano stati consegnati ai Guerreros Unidos, un temibile cartello che spadroneggia nella regione. Gli studenti, tra i 18 e i 24 anni, frequentavano la Scuola Normale di Ayotzinapa per la formazione di insegnanti. Nessuno di loro è stato più rivisto.
A distanza di mesi, il “caso Iguala” continua ad alimentare rabbia e furore in Messico. Scoppiano proteste quasi quotidiane, a volte violente, in tutto il Paese. Il governatore è stato costretto a dimettersi, mentre il sindaco di Iguala, José Luis Abarca, presunto mandante dell’attacco e latitante insieme alla moglie, è stato scovato a Città del Messico.
Almeno 80 persone, tra cui poliziotti e boss criminali, sono state arrestate. I manifestanti hanno dato fuoco a edifici governativi e chiesto le dimissioni del Presidente Enrique Peña Nieto.
Ma perché tanta rabbia solo ora, in un paese in cui dal 2006, quando l’ex Presidente Félipe Calderón ha dichiarato guerra ai narcos, più di 80.000 persone sono state uccise e 30.000 sono scomparse?
“È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso”, dice Ioan Grillo, autore di El Narco: Inside Mexico’s Criminal Insurgency. Secondo Grillo è il frutto di una “serie di torti accumulati negli anni. Un attacco che tocca un nervo scoperto perché colpisce giovani studenti – la speranza del futuro – e i responsabili sono poliziotti e funzionari, non solo criminali”.
Durante le settimane successive alla sparizione, volontari della polizia comunitaria come Crisóforo García hanno perlustrato le montagne roventi, verdissime e insidiose di Guerrero. Con pala in mano, i pugni bruciati dal sole, usciva ogni giorno in una diversa “missione segreta”.
“Non ci fermeremo finché non li troviamo, e li troveremo vivi”, diceva. Da allora, la sua squadra ha seguito varie piste promettenti, ma degli studenti nessuna traccia. Quello che ha invece scoperto sono “centinaia di fosse clandestine”, un dato impossibile da verificare per altre fonti.
“Tutto ciò dimostra che l’intero Stato di Guerrero è un’enorme fossa comune”, ha detto. “Siamo solo dei civili. Possiamo effettuare le ricerche ma non siamo in grado di analizzare i resti”, ha spiegato García, “quello è compito del governo, ma loro non ci danno mai nessun risultato”.
“Non mi fido del governo. Sono in grado di inventarsi una storia e mostrarci un paio di ossa qualsiasi per tenerci buoni. Crederò solo ai test del DNA indipendenti”, ha detto Maria Olivares, madre di Antonio, uno degli studenti scomparsi, spiegando che continuerà a vegliare nel dormitorio di Ayotzinapa finché qualcuno non possa davvero dimostrarle che suo figlio non è più in vita.
Il 7 novembre, il Procuratore Generale Jesús Murillo Karam ha mostrato un video agghiacciante in cui alcuni sospetti confessavano di aver ucciso gli studenti, bruciato le loro spoglie in una discarica vicino a Cocula, a 20 km da Iguala, e buttato le ceneri nel fiume.
Un mese dopo, esperti di medicina legale austriaci e argentini hanno confermato di aver identificato i resti di uno degli studenti, Alexander Mora, 19 anni. Ma l’equipe argentina ha ribadito di non avere prove tangibili che i suoi resti si trovassero nella discarica, insinuando che forse il ritrovamento era stato predisposto.
Il caso è ancora in alto mare, ed è uno dei tanti in Messico che forse non vedrà mai giustizia.
In tutto il Paese, i genitori dei desaparecidos si sono organizzati per aiutarsi a trovare i loro cari. “Ci siamo improvvisati detective privati, facendo le nostre indagini e perfino le nostre perizie forensi”, dice Araceli Rodríguez, il cui figlio è scomparso nel 2009 nello stato di Michoacán.
Rodríguez fa parte di un nuovo progetto chiamato Ciencia Forense Ciudadana, un registro online indipendente – diretto dai cittadini stessi – che consente ai Messicani di segnalare sparizioni e pubblicare le prove raccolte.
“Lo Stato non ha il monopolio della verità; vogliamo indagini trasparenti, per questo è fondamentale che il database sia indipendente”, dice Ernesto Schwartz, antropologo messicano di 33 anni e cofondatore del progetto con Arely Cruz, 28. “È schizofrenico pensare che lo Stato commetta un delitto, e che i cittadini si rivolgano allo stesso Stato per richiedere verità e giustizia”.
Al momento della sua elezione il Presidente Peña Nieto aveva promesso di rendere il Paese più sicuro. Ma in questi primi due anni ha puntato sulle riforme economiche ed energetiche, lasciando in secondo piano la sicurezza. Circa 10.000 persone sono scomparse e più di 40.000 sono state uccise dall’inizio del suo mandato – segno che in Messico la violenza non sta diminuendo.
In un clima di sfiducia, i fatti di Iguala hanno messo a nudo la letale narco-politica messicana, in cui autorità e crimine organizzato, Bene e Male, si confondono. “Ci sono zone del Paese in mano ai cartelli della droga dove lo Stato di diritto non esiste più”, ha detto Grillo.
“Il governo messicano deve capire che la sicurezza pubblica è in crisi; e la sicurezza dovrà essere una priorità per il Paese negli anni a venire”.
Sebbene centinaia di agenti federali pattuglino l’intero Stato di Guerrero, la gente di Iguala non si sente più al sicuro. “Viviamo nella paura e di notte non usciamo”, sussurra una giovane donna, che ci dice chiamarsi solo “Amalia”, guardandosi intorno con fare sospettoso. “Non sappiamo se avere più paura dei criminali o della polizia. I poliziotti sono criminali in uniforme”, dice, e aggiunge che conosceva personalmente almeno sette persone che sono scomparse negli ultimi anni. Nessuno è stato ritrovato.
Il Messico insegna cosa succede quando lo Stato di diritto viene meno.