Le tensioni con Bruxelles non indeboliscono il premier ungherese a casa. Grazie anche a un sistema elettorale ridisegnato su misura il grande favorito per le elezioni di aprile è ancora lui. L’unico in grado di sfidarlo sembra Jobbik, il partito di estrema destra che tenta di rivendersi come moderato, con risultati grotteschi
La settimana scorsa la Commissione Europea ha reso noto che porterà Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca davanti alla Corte Europea di Giustizia (Ecj). Questi Paesi continuano ad opporsi alla redistribuzione dei richiedenti asilo, negligenza già sanzionata dalla Ecj a settembre. All’Ungheria verranno contestati anche due altri provvedimenti (la cosiddetta Lex Ceu e quella sulle Ong straniere), sulle quali la corte costituzionale magiara, controllata dal governo, ha scelto di non esprimersi prima delle elezioni. Come suggerito dalla sostituzione forzata della premier polacca Beata Szydło con il più europeista Mateusz Morawiecki, l’Ue ha ormai optato per la linea dura contro i ribelli del V4.
Tuttavia, le continue tensioni con Bruxelles non sembrano minacciare il favore di cui Viktor Orbán e sodali godono in patria. Il mese scorso un sondaggio di Republikon ha mostrato come il sostegno elettorale a Fidesz abbia raggiunto il livello più alto di sempre: il 54% (lo Jobbik, secondo partito, al 15%).
Altri sondaggi indicano addirittura il 61%. In entrambi i rilevamenti agli intervistati è stato domandato per chi voterebbero, ovvero quale partito ritengono sia il migliore tra quelli attualmente presenti nell’arena politica. Invece, parlando di scenari ipotetici (esprimendosi in maniera dicotomica sull’eventuale riconferma dell’esecutivo, a prescindere da chi andrebbe a sostituirlo), il 56% della cittadinanza vorrebbe vedere un cambio di governo, secondo l’istituto Publicus.
Aldilà dei freddi numeri, difatti, nella società ungherese si nota un crescente malcontento verso Orbán, un sentimento di generale sfiducia verso il futuro di cui nessuna opposizione riesce a rendersi portavoce legittima. Oltre alla loro propria evanescenza, esiste anche un elemento strutturale che frustra le ambizioni degli aspiranti eredi di Orbán: il sistema elettorale.
Nel 2012, forte della maggioranza di due terzi (persa solo nel 2015), il governo modificò la legge elettorale, provocando l’ira delle opposizioni che paragonarono la mossa a quella con cui i comunisti ottennero il potere nel 1947. I seggi vennero ridotti da 386 a 199, di cui 106 eletti con criterio maggioritario a collegi uninominali e 93 con proporzionale su scala nazionale. Fu inoltre eliminato il quorum del 50% e venne introdotto l’obbligo di registrazione per gli elettori. Ma, soprattutto, i collegi elettorali vennero abilmente ridisegnati ad uso e consumo del governo: alle prime elezioni con il nuovo sistema (tasso di astensione di quasi il 40% – il più alto dal 1998), la coalizione uscente Fidesz-Kdnp, pur avendo preso il 7.9% di voti in meno rispetto alla tornata precedente, ha perso solo l’1.3% dei seggi in parlamento.
Secondo la London School of Economics, questo nuovo sistema elettorale limita la rappresentazione di partiti minori e minoranze e disincentiva la partecipazione attiva dei cittadini. Recentemente, molti opinion-leader si sono mobilitati – invano – per chiedere la reintroduzione di un proporzionale che tuteli la rappresentatività dell’architettura democratica magiara.
L’unico reale sfidante di Fidesz è Jobbik, che oggi conta 24 seggi all’Országház. Tradizionalmente espressione della destra ultra-nazionalista e xenofoba, il partito di Gábor Vona sta disperatamente cercando di posizionarsi più al centro dello spettro politico. Molti osservatori hanno infatti notato la convergenza ideologica tra Fidesz e Jobbik su tematiche come immigrazione, russofilia, rifiuto del multiculturalismo.
Il restyling del partito ha raggiunto livelli quasi grotteschi, come quando Vona ha intimato al governo di scusarsi per il trattamento riservato alle minoranze rom, notoriamente bersaglio privilegiato del movimento che Vona stesso presiede dal 2003. Tuttavia, non tutti i membri sposano il nuovo corso: László Toroczkai, celebre iniziatore di varie cacce al migrante, nonché sindaco di Asotthalom, trasformata in una fortezza tradizionalista preclusa a musulmani e gay “appariscenti”, è tutt’oggi vice-presidente. Fidesz sta cercando di eliminare il suo principale antagonista per via amministrativa. La Corte dei Conti ungherese, emanazione del governo, ha inflitto a Jobbik una multa di 2 milioni di euro per aver ricevuto fondi illeciti in campagna elettorale. Il partito di Vona ha parlato di “azione dittatoriale” da parte dell’esecutivo e ha minacciato di non presentarsi alle elezioni.
Sul versante ideologico, il centro-sinistra (28 seggi) pare agonizzante. Sebbene ampie fette dell’elettorato si esprimano a favore di una coalizione comune, gli appelli rivolti ai socialdemocratici del Mszp per formare un fronte compatto anti-Orbán sono caduti ineluttabilmente nel vuoto. Le tumultuose dimissioni del leader in pectore László Botka (sindaco di Szeged) sembravano aver dato nuovo slancio alle contrattazioni tra Mszp e gli alleati di Coalizione Democratica, una costola dei socialdemocratici fondata dall’ex premier Ferenc Gyurcsány nel 2011, che si sono però rivelate nuovamente infruttuose. Come se il masochismo di Mspz e compagni non bastasse, l’ex ministro dei servizi segreti ha sostenuto che infiltrati di Fidesz agiscano da sabotatori tra i socialdemocratici.
Infine, tra i partiti ora presenti nell’Országház (indipendenti esclusi), resta da menzionare La Politica può Essere Diversa (6 seggi), una formazione ecologista di centro-destra, che ha recentemente assorbito il neonato Nuovo Inizio, fondato da György Gémesi, sindaco di Gödöllő dal 1990. Anche loro correranno da soli.
In questo quadro, molto probabilmente le elezioni di aprile serviranno solo da plebiscito per Fidesz – un partito non populista, contrariamente alla vulgata.
@SimoMago
Le tensioni con Bruxelles non indeboliscono il premier ungherese a casa. Grazie anche a un sistema elettorale ridisegnato su misura il grande favorito per le elezioni di aprile è ancora lui. L’unico in grado di sfidarlo sembra Jobbik, il partito di estrema destra che tenta di rivendersi come moderato, con risultati grotteschi