Dopo il voto, in Ungheria arriva la legge “Stop Soros” che colpisce le Ong. Intanto chiude Magyar Nemzet, uno dei giornali più critici, rafforzando il controllo di Fidesz sui media. Poi toccherà alla giustizia. E all’università. Si perfeziona così il sistema illiberale plebiscitato dagli ungheresi
In questa campagna elettorale, una campagna lunghissima, iniziata già al tempo della crisi dei migranti sulla rotta balcanica, nel 2015-2016, Viktor Orban ha raccontato un’Ungheria minacciata dall’invasione di migranti, orchestrata da George Soros. È stato davvero l’unico messaggio comunicato dal primo ministro ungherese: con discorsi, cartelloni pubblicitari, campagne stampa e persino l’invio di un formulario nelle case dei cittadini. Non è di certo un’invenzione giornalistica. E del resto Fidesz, il partito di Orban, non ha nemmeno presentato un programma elettorale per le parlamentari di domenica. Stravinte, come noto.
Arriva la legge “Stop Soros”
La questione Soros non è stata solo uno strumento di propaganda. All’orizzonte, un orizzonte vicino, s’intravede un passo concreto. Quando il nuovo parlamento si riunirà, a fine aprile, dovrebbe infatti scattare l’approvazione della cosiddetta legge “Stop Soros”, già presentata dal governo nei mesi scorsi.
Si articola in tre punti. Il primo: ogni organizzazione che vanta attività e programmi nel campo dell’immigrazione, dell’asilo politico e del sostegno ai rifugiati deve ottenere dal ministero dell’Interno il via libera a operare. Il secondo: le organizzazioni che ricevono finanziamenti dall’estero, non solo quelli della Open Society di George Soros, vanno tassate al 25%. Il terzo: non ci si potrà avvicinare più di tanto al confine con la Serbia, dove vengono raccolte le (poche) richieste di asilo politico.
Per Orban, che il 15 marzo, in un discorso durissimo, aveva promesso un regolamento di conti “morale, politico e legale” con chi trama contro la sovranità ungherese, questa è una legge necessaria, che protegge l’Ungheria, i suoi confini e la sua indipendenza. Per i suoi critici, invece, il provvedimento comprime i margini di manovra umanitari, politici e finanziari delle Ong. Non solo: è un ulteriore passaggio del processo di presa dello Stato e creazione di un sistema non liberale evocato e realizzato in questi anni da Fidesz.
In effetti, l’Ungheria di oggi è un Paese dove tra Stato e partito c’è una certa simbiosi, e dove il potere della maggioranza appare debordante rispetto ai principi di tutela delle minoranze politico-culturali, degli equilibri tra poteri e dei corpi intermedi della società.
Giudici, stampa e ricerca: i prossimi assalti
Non va escluso che questo sbilanciamento si aggravi. E la notizia che sul fronte dei media è arriva ieri ha del clamoroso. Magyar Nemzet, giornale critico, ha annunciato la fine delle pubblicazioni. Da oggi non sarà più in edicola. La proprietà sarebbe in procinto di passare a Peter Ungar, figlio di Maria Schmidt, editrice e storica vicina a Orban.
Si rafforza dunque il processo che ha portato Fidesz, attraverso oligarchi e personaggi organici, a rilevare in questi anni svariati giornali e diverse stazioni radio-tv. Assieme al giornale chiude Lanchid Radio, dello stesso gruppo: quello del tycoon Lajos Simicska, caduto in disgrazia dopo essere stato un grandissimo alleato di Orban.
A quanto pare Simicska, che in campagna elettorale ha sostenuto Jobbik, partito di estrema destra ripensatosi un po’ al centro, non ha più risorse per portare avanti la partita con Magyar Nemzet e Lanchid Radio. Gli restano il sito Index.hu e Hir TV, e l’ipotesi che il potere dia l’assalto anche a queste testate non è irrealistica. Intanto, si legge su Politico, Fidesz punterebbe a mettere le mani anche su Rtl Klub, tv di proprietà tedesca.
Il governo, per passare ad altro, potrebbe accentuare anche il controllo sulla giustizia, per esempio con nuove nomine di magistrati in quota Fidesz. Il terzo potere era già stato addomesticato negli anni passati, con una norma sul prepensionamento dei giudici (che ha mandato a casa diverse toghe ritenute non allineate) e con la creazione dell’Ufficio giudiziario nazionale, organo che sovrintende alla nomina dei magistrati e che vede al suo vertice Tunde Hando, moglie di un Joszef Szajer, notabile Fidesz.
Intanto, è di lunedì la notizia che la Central European University (Ceu), ateneo fondato da George Soros con sede a Budapest, oggetto nei mesi scorsi di una legge molto criticata, che a detta di molti ne pregiudica l’autonomia, ha appena firmato un accordo con la città di Vienna per aprirvi un campus. Una mossa che alluderebbe a un possibile trasferimento nella capitale austriaca, se mai il governo dovesse limitarne oltre modo l’indipendenza. I vertici della Ceu, a ogni modo, hanno confermato che l’obiettivo è rimanere a Budapest.
Sempre a proposito di ricerca, si mormora di un’ulteriore spinta all’irreggimentazione. Da notare che, come riporta il New York Times, il governo ha tagliato il 30% dei fondi per le università, trovando però risorse per sostenere l’attività di centri di ricerca sensibili alla visione sovranista di Orban.
Il segreto del successo di Orban
Ma perché Orban vince e convince? Perché gli ungheresi votano in massa Fidesz, nonostante la violazione dei cardini della democrazia liberale e i molti episodi di corruzioni in cui diversi suoi esponenti sono rimasti impigliati? Ci sono varie risposte.
Una è la stabilizzazione economica. Orban, quando vinse le elezioni nel 2010, aprendo il primo dei suoi tre mandati consecutivi, prese un Paese sull’orlo dell’abisso economico-finanziario, evitato solo dal prestito del Fondo monetario internazionale, vincolato a condizioni severe. Oggi l’Ungheria non è più legata alle direttive del Fmi, cresce a ritmi sostenuti e vanta fondamentali abbastanza stabili. La disoccupazione è ai minimi storici (meno del 4%), anche se il dato è viziato dai tanti lavori pubblici creati dal governo, retribuiti modestamente. Di certo c’è che Orban ha introdotto dosi di welfare mai viste prima, pur se ultimamente c’è stato qualche taglio.
Eppure l’economia non spiega tutto. E non riesce a farlo nemmeno la scarsa consistenza dei partiti politici dell’opposizione, soprattutto quelli di sinistra e liberali, incapaci di riprendersi dopo la sconfitta del 2010. Un fattore ancor più determinante del consenso di Orban sta nel fatto che il primo ministro si è sintonizzato perfettamente con il bisogno di protezione presente in quel pezzo di Paese rurale e abbastanza povero, che poi è il Paese maggioritario.
Un senso di protezione che da un lato si salda alle tendenze e agli umori europei e globali, dall’altro si lega al percorso post-’89 dell’Ungheria. L’adesione all’Europa – voluta fortemente dagli ungheresi, beninteso – è avvenuta in maniera algida, burocratica. Spesso il rapporto tra Bruxelles e Budapest è stato percepito come quello tra un professore e uno studente: il primo assegna i compiti, il secondo li esegue. E a questo si associa la delusione per il mancato boom economico promesso dall’Ue prima e all’atto dell’allargamento del 2004.
Non che l’Ungheria e gli altri Paesi della regione centro-europea non siano cresciuti. Tutt’altro. Ma il processo di convergenza con l’Europa più ricca e avanzata è stato più lento del previsto, dando corda a delusione e frustrazione. Orban ha saputo ascoltare questi sentimenti, sviluppando la retorica giusta, ancorché viziata da elementi di falsità, per tramutare tutto questo in consenso e progetto di governo.
@mat_tacconi


Dopo il voto, in Ungheria arriva la legge “Stop Soros” che colpisce le Ong. Intanto chiude Magyar Nemzet, uno dei giornali più critici, rafforzando il controllo di Fidesz sui media. Poi toccherà alla giustizia. E all’università. Si perfeziona così il sistema illiberale plebiscitato dagli ungheresi