Le regole del maxi-piano green si calano nella quotidianità – il regolamento sui nuovi standard di auto e furgoni – e l’ambizione emissioni zero che aveva messo (quasi) tutti d’accordo all’inizio si ritrova sotto un fuoco di fila
Diradate le nubi, in Europa si vedono le prime luci dell’alba dell’auto a emissioni zero. Arriverà a compimento a partire dal 2035, quando tutti i nuovi veicoli leggeri nell’Unione europea dovranno essere climaticamente neutri. Alimentati, cioè, con batterie elettriche oppure a carburanti a emissioni zero (ed è stato questo il punto più controverso delle ultime fasi della trattativa). Una formulazione che consente di tenere in vita il motore endotermico anche dopo il 2035, purché il pieno venga fatto non con diesel e benzina, ma con i combustibili sintetici, gli e-fuel.
Il nuovo regolamento sugli standard di CO2 di auto e furgoni è stato approvato definitivamente (con l’astensione di Italia, Bulgaria e Romania e il no della Polonia) dai ministri dei Ventisette riuniti nel Consiglio Energia il 28 marzo scorso. Rientra così nel gruppo di testa dei primi dossier del pacchetto “Fit for 55” che tagliano il traguardo del processo legislativo e possono cominciare la fase esecutiva, instradando l’Ue verso l’obiettivo del taglio delle emissioni carboniche del 55% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990, tappa intermedia nella direzione dello zero netto al 2050 previsto dal Green Deal.
È proprio il maxi-piano verde dell’Ue, però, a uscire ammaccato dalla battaglia sul futuro dell’automotive – combattuta tanto nella litigiosa coalizione di governo tedesca quanto nell’arena politica di Bruxelles e Strasburgo –, e a vedere nuovi agguati politici sempre più realistici, con le politiche per il clima nel mirino, nei mesi che ci separano dalle elezioni europee del maggio 2024. Dietro l’apparente tecnicismo dei provvedimenti, infatti, prende forma la ricerca di maggioranze alternative alle larghe intese targate Ursula von der Leyen.
Dopotutto, il passaggio in Consiglio ha chiuso un iter legislativo che, nelle battute finali (quando l’adozione era data ormai per acquisita, perlomeno secondo le tradizionali liturgie brussellesi), è stato messo in discussione dal profilarsi di una minoranza di blocco, cioè un fronte comune di un numero di Paesi tale da rappresentare più del 35% della popolazione Ue. Soglia che, a sorpresa, si è materializzata quando il voto definitivo sul regolamento stava già per essere calendarizzato all’ordine del giorno per l’ok formale nella prima riunione utile del Consiglio, cioè quello del 7 marzo, dopo che tra giugno e ottobre scorsi i rappresentanti dei governi, senza palesare fughe in avanti, avevano espresso il loro sostegno alla stretta green per l’auto (e che, a breve, riguarderà pure camion e pullman).
Trainata dal pressing interno dei liberali pro-industria dell’Fdp (terza gamba dell’eterogenea coalizione retta dal cancelliere Olaf Scholz), la scelta di Berlino di paventare un’astensione, sommata al no già annunciato da Roma e Varsavia e all’incertezza di Sofia, però, ha congelato tutto. Oltre a spiazzare gli alleati Ue per un inatteso cambio di passo da parte di chi, in Europa, è solito dare le carte. La mossa ha aperto un canale di negoziato diretto, e di emergenza, tra Berlino e Bruxelles, alla ricerca di un compromesso in grado di sbloccare l’impasse. La trama si è sviluppata in parallelo al Consiglio europeo del 23-24 marzo, finendo per contaminare il clima del summit e popolare le dichiarazioni dei leader, i quali formalmente avevano all’ordine del giorno non una questione così tecnica e di dettaglio, ma confronti più strategici sulla competitività globale, la governance economica, la gestione dei flussi migratori e l’unione bancaria.
Al centro del contendere è stata l’interpretazione del considerando 11 del regolamento, testo senza portata normativa ma con valore interpretativo che, nella versione abbastanza generica introdotta lo scorso anno nei negoziati interistituzionali tra Parlamento, Consiglio e Commissione, impegna l’esecutivo Ue “a presentare proposte per immatricolare anche dopo il 2035 veicoli alimentati esclusivamente con carburanti neutrali a livello di CO2”. Un impegno troppo vago – secondo la Germania – che non avrebbe dato vere garanzie sulla messa a punto di regole precise sugli e-fuel, i carburanti prodotti a partire da energie rinnovabili e con processi che “catturano” la CO2 dall’atmosfera e, in tal modo, nel complesso bilanciano le emissioni tra quella assorbita e quella rilasciata quando il motore è in funzione. Si tratta di tecnologie al centro di imponenti investimenti da parte delle case automobilistiche, tra cui varie grandi sigle tedesche.
Dopo un tira-e-molla durato un mese e contatti costanti tra Berlino e Bruxelles, il compromesso messo sul tavolo dalla Commissione europea è riuscito nel duplice obiettivo di non riaprire un testo che aveva ormai completato la navetta con il Parlamento Ue e di prevedere l’impegno – messo nero su bianco in una dichiarazione di natura politica – a presentare in autunno un provvedimento normativo per precisare le specifiche tecniche sull’impiego dei combustibili sintetici. La bozza dovrebbe accompagnarsi a nuove regole tecniche per i produttori di auto che consentano di “intercettare” e bloccare l’eventuale pieno con benzina e diesel tradizionali, in modo da avere la certezza che il motore a combustione sarà alimentato esclusivamente da e-fuel.
Per i tedeschi capitanati dal ministro dei Trasporti Volker Wissing e dal collega di partito e titolare delle Finanze Christian Lindner (che dell’Fdp è pure leader), si trattava di ribadire il principio della neutralità tecnologica nella transizione verde, e avere appigli giuridici più solidi per l’impiego degli e-fuel e la sopravvivenza del motore endotermico accanto all’elettrico.
Ora, c’è una storia nella storia. Perché in molti nelle diplomazie Ue sono convinti che Berlino sia diventata una spina nel fianco in Europa. Archiviata (ma non troppo) la politica d’età merkeliana del “kick the can down the road” che ha lasciato questioni irrisolte maturare al sole (dallo stato di diritto in Ungheria alla dipendenza strategica dalla Russia), la cifra che fa spazientire tanti a Bruxelles è l’inaffidabilità della “coalizione semaforo” in Germania. Per ben due volte in una manciata di settimane, rappresentanti del governo tedesco hanno tirato il freno a mano su dossier Ue: non solo sul futuro dell’auto, ma pure, pochi giorni prima, sulla riforma del Patto di stabilità e crescita, ottenendo in extremis un supplemento di consultazione delle capitali prima che la Commissione possa presentare la proposta legislativa di revisione della disciplina sui conti pubblici, il più classico dei fronti dell’attivismo tedesco. In entrambi i casi, a fare da guastafeste è stato il duo Wissing-Lindner: la Fdp è in forte sofferenza nelle urne e nei sondaggi e nella dialettica di coalizione con i socialdemocratici di Spd e i verdi. I liberali alzano, così, a più riprese la posta, soprattutto per fare da cassa di risonanza alle posizioni dell’industria tedesca; una tendenza che continuerà, e possibilmente aumenterà di intensità, perlomeno fino alle elezioni bavaresi di inizio ottobre.
Tornando all’auto, “sarà il mercato a decidere quale tecnologia climaticamente neutra prevarrà nel futuro”, s’è detto convinto Wissing dopo il via libera al regolamento sulla CO2 dei veicoli leggeri. La linea difensiva che, perlomeno nelle fasi iniziali del pressing sulla Commissione, la Germania ha condiviso pure con l’Italia. È stato il no al regolamento formalizzato a fine febbraio da Roma a motivare i tedeschi a tentare il tutto per tutto e intavolare un negoziato in extremis con l’esecutivo Ue, forte dei numeri della minoranza di blocco. A sua volta, il governo italiano s’è messo al traino di quello tedesco: convinto dell’apertura agli e-fuel, ha voluto sfruttare lo stallo per provare a dare la patente green anche ai biocombustibili, i carburanti alternativi frutto di colture agricole o della lavorazione di sostanze organiche di origine vegetale e animale. Nel nostro Paese, è soprattutto Eni a produrre bio-fuel e a investire sul loro sviluppo. Nonostante una lettera inviata dall’esecutivo italiano a quello Ue a tempo quasi scaduto, però, il tema dei biocarburanti non è mai davvero entrato in agenda. Anzi. La porta della Commissione sembrerebbe per ora chiusa a doppia mandata, tanto che tra le sue garanzie sui combustibili sintetici Bruxelles evoca l’acronimo “Rfnbo”, che fa riferimento ai soli carburanti rinnovabili di origine non biologica. Escludendo, quindi, senza appello i biocombustibili: questi ultimi – è l’argomentazione che circola nei palazzi Ue – emettono CO2, pur se meno di quelli di origine fossile. Roma non intende, tuttavia, cambiare linea: guarderà alle proposte legislative della seconda metà dell’anno e, in particolare, alla revisione del regolamento prevista nel 2026, per tornare all’attacco. Per quella data, l’obiettivo italiano è “dimostrare che anche i biocarburanti possano rientrare nella categoria di combustibili neutri in termini di bilanciamento complessivo di CO2”. La strada, ragionano al governo, è tracciata. Tanto che il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin ha fatto mettere agli atti del Consiglio l’intervento con cui, motivando l’astensione, ha salutato come “uno sviluppo positivo” la possibilità di continuare a produrre motori a combustione (ambito in cui l’Europa è tra i leader globali), ma ha rilanciato le trattative in nome di “tutte le soluzioni disponibili”, per andare oltre quelle che Roma giudica interpretazioni ancora troppo restrittive.
Ad annunciare la fumata bianca sugli e-fuel e a tenere il punto sul no ai bio-fuel è stato in prima persona il vicepresidente esecutivo della Commissione Frans Timmermans, gran capo del Green Deal Ue. Le concessioni, soprattutto per l’irritualità del passo di lato della Germania, hanno richiesto un intervento politico al più alto livello. Anche perché finora la linea prevalente negli scambi con tecnici e vertici della Commissione vedeva sì un’apertura di massima ai combustibili sintetici nella transizione ecologica, ma non tanto come carburante per le auto su strada, quanto, semmai, per la decarbonizzazione di mezzi di trasporto di ben più difficile riconversione verso l’elettrico, quali navi e aerei. Per l’esecutivo Ue, però mettere il dossier sull’auto al riparo dalle turbolenze era essenziale. Se auto e furgoni, secondo le ricognizioni Ue, rappresentano il 15% delle emissioni di CO2 dell’Unione, ancor più dei numeri, a spiegare i contorni della partita sull’automotive c’è un forte simbolismo politico. Che tocca proposte capaci di avere un impatto radicale sulla vita dei cittadini – dall’auto alla casa passando per la tavola –, e il cambio di passo che vuole imprimere il Green Deal.
Giunti all’ultimo tornante della legislatura Ue e ora che le regole del maxi-piano verde si calano nella quotidianità, l’ambizione emissioni zero che aveva messo (quasi) tutti d’accordo all’inizio del mandato si ritrova sotto un fuoco di fila. Trascinando le politiche per il clima al centro dello scontro. Il contesto politico, dopotutto, è in evoluzione, accelerato dall’esito delle urne italiane e dall’avvento di un governo di destra a Roma che tesse la sua tela in Europa. Trovando, spesso, sponde non da poco. E preparando – o perlomeno questa è la scommessa – un asse alternativo alla maggioranza di larghe intese che ha finora retto le sorti dell’Unione. Non più un fronte che tenga dentro il mainstream di centro, destra e sinistra, ma un’organica alleanza conservatrice capace di far avanzare una nuova agenda.
Come con i flussi migratori, il Green Deal tra partita sulle auto – che presto si estenderà al braccio di ferro sugli standard Euro 7 relativi alle emissioni nocive diverse dalla CO2 (categoria che per la prima volta prende in considerazione il consumo di freni e pneumatici) – e quella, parallela, sull’efficientamento energetico degli edifici e la riscrittura delle classi di consumo, sta offrendo un terreno per mettere in piedi una “culture war” sulla transizione ecologica con motivazioni di carattere industriale e risvolti pratici populisti, tangibili per i cittadini. L’indiziato principale è il Ppe: all’interno del Partito popolare europeo, che è ancora la principale forza parlamentare di centrodestra, non mancano le sirene, soprattutto tra i gruppi dell’Europa centro-meridionale, che per il 2024 guardano a un’alleanza con i conservatori Ue guidati da Giorgia Meloni. I sondaggi, per ora, non lasciano presagire la possibilità di nuove maggioranze, ma i riposizionamenti in corsa sul Green Deal possono fornire un primo laboratorio politico per prendere le misure.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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