Il 28 luglio in Venezuela si terranno le attesissime elezioni presidenziali. Maduro vuole ottenere il suo terzo mandato consecutivo, ma la coalizione dell’opposizione si mantiene in testa in tutti i sondaggi.
Sebbene la campagna elettorale verso le presidenziali del prossimo 28 luglio inizierà ufficialmente tra una settimana, il clima pre-elettorale è già in moto in Venezuela. Dopo le polemiche che hanno seguito la confezione delle liste elettorali, il panorama è ormai ben chiaro: Nicolás Maduro, al potere dal 2013, cercherà di ottenere il suo terzo mandato consecutivo, e il principale sfidante sarà il diplomatico Edmundo González Urrutia, della Piattaforma Unitaria Democratica, la coalizione che riunisce la maggior parte delle forze di opposizione in Venezuela. Vi sono altri otto candidati alla presidenza, ma Maduro e Urrutia concentrano, secondo i principali sondaggi, più del 95% dei voti.
Non esiste, per ora, alcun sondaggio favorevole all’attuale presidente. La differenza oscilla tra il 20 e il 40% dei voti a favore della coalizione di opposizione secondo tutti i sondaggi finora pubblicati. Il grande mistero però è l’astensionismo: la carta che potrebbe giocare a favore del chavismo oggi – contrariamente a quel che ha contraddistinto il movimento popolarissimo in passato – è proprio l’astensione di una fetta considerevole dell’elettorato. Se i sostenitori più convinti del governo – tra il 25 e il 30% della popolazione secondo le stime più generose – non hanno dubbi sul fatto che andranno a votare il 28 luglio, il resto dell’elettorato non sembra così convinto.
Un fenomeno già determinante in passato: alle presidenziali del 2018 si recò a votare solo il 46% dell’elettorato, e alle amministrative del 2021, dove il chavismo sbancò a sorpresa in quasi tutti gli stati del paese, la media fu del 42%. La crisi economica permanente, il susseguirsi di grandi mobilitazioni condotte dai dirigenti dell’opposizione concluse in violenza negli ultimi anni sembrerebbero aver demotivato un settore grande degli elettori. Proprio per questo la campagna dell’opposizione in vista della nuova tornata elettorale parte proprio dalla promozione del voto, anche tra la consistente diaspora venezuelana, cavalcando l’onda lunga dell’entusiasmo generato dalle primarie vinte dalla leader della destra, Corina Machado, nell’ottobre scorso. Il Consiglio Nazionale Elettorale ha poi deciso di proibirle di partecipare ai comizi, e dopo una serie di negoziazioni interne all’eterogenea coalizione, si è deciso di appoggiare González Urrutia, che inizialmente si sarebbe presentato in una lista indipendente.
Molti analisti a livello internazionale si sono soffermati sulla presunta prova di coesione dimostrata dall’opposizione venezuelana, che ha deciso di presentare una candidatura unificata. Ma oltre a trattarsi di uno scenario evidentemente improvvisato, a fronte delle decisioni del governo Maduro che hanno spinto l’opposizione a convergere in fretta e furia attorno ad una figura sicuramente poco attraente per le grandi masse, non rileva il grande pericolo che affronta la coalizione della destra venezuelana nel gestire un simile Frankenstein politico, guidato formalmente da un democristiano riformista ma animato da una ultra liberista come Machado, più vicina alle posizioni del presidente argentino Javier Milei che a quelle dei suoi compagni di coalizione.
Le differenze tra Machado e González Urrutia sono estremamente evidenti, e sarebbe tra l’altro particolarmente difficile stabilire chi dovrebbe mettersi alla testa di una possibile transizione dopo le elezioni. L’appoggio generale che riceve oggi l’opposizione – dovuto più che altro ad un rifiuto della situazione socio-economica attuale, più che ad un vero e proprio sostegno del programma della Piattaforma Democratica – permette comunque di porsi l’interrogativo intorno al futuro immediato post-elezioni: Maduro governerà, vinca o perda a luglio, fino al 1º gennaio 2025, un lunghissimo periodo di transizione, in caso di avvicendamento, su cui si concentra oggi l’attenzione internazionale.
Ma le elezioni prima si devono svolgere, e il risultato ancora deve essere scritto. Nonostante la situazione economica e sociale sia ancora drammatica, il chavismo sta crescendo nei sondaggi: se un anno fa Maduro aveva l’appoggio del 18% degli elettori, oggi è ormai sopra al 27%. Un miglioramento forgiato soprattutto grazie alla breve primavera vissuta dall’economia venezuelana dopo gli accordi che hanno permesso alla statale Petroli del Venezuela (PDVSA) ed altre aziende internazionali (tra cui l’italiana ENI) di riprendere le esportazioni di greggio dal Venezuela – sospese dal 2019 per ordine di Washington, una vera e propria ecatombe sulla fragile economia nazionale – per sostituire il petrolio russo nel pieno del boicottaggio internazionale dichiarato dopo l’invasione in Ucraina. Ma l’arresto di diversi esponenti dell’opposizione, e gli ostacoli posti alle candidature di vari dirigenti hanno portato Washington a ritornare alla linea dura contro Caracas.
Anche sul fronte regionale il governo Maduro sembrerebbe aver perso quel tacito sostegno di cui pareva giovare in passato. I nuovi governi di sinistra in Sudamerica non sono certo così condiscendenti con la Rivoluzione Bolivariana come lo erano stati quelli del periodo del famoso “pink tide” dei primi anni duemila. Il presidente cileno, Gabriel Boric, si è più volte smarcato dal chavismo nei suoi discorsi ufficiali, e ha recentemente sostenuto che la situazione in Venezuela è particolarmente complessa. Nei mesi scorsi le tensioni tra i due paesi sono tra l’altro aumentate a causa della presenza in Cile di membri del Tren de Aragua, la più importante organizzazione criminale venezuelana, di cui il governo Maduro nega però l’espansione internazionale.
Anche il Brasile di Lula ha preso certe distanze dal governo Maduro, e le elezioni del mese prossimo potrebbero rappresentare un punto di flessione nella relazione tra Brasilia e Caracas: Lula ha approfittato della visita di Macron in Brasile nel marzo scorso per lanciare un avvertimento contro la decisione del Consiglio Nazionale Elettorale di escludere Corina Machado dalla corsa presidenziale. A inizio giugno ha chiamato personalmente il presidente Maduro per chiedergli di garantire elezioni trasparenti ed un’ampia rete di osservatori internazionali.
Agli appelli del presidente brasiliano si è sommato anche il colombiano Gustavo Petro, che durante una recente visita a Caracas si è impegnato a presentare un progetto di Accordo di Pace per garantire una transizione politica pacifica nel caso di una vittoria dell’opposizione. Il ministro degli Esteri colombiano, Luis Gilberto Murillo, ha già annunciato che il suo Paese non invierà osservatori elettorali propri.
Proprio quello dell’osservazione internazionale delle elezioni è oggi un fronte molto caldo per il governo venezuelano. A fine maggio il Consiglio Nazionale Elettorale ha revocato l’invito esteso all’Unione Europea per il dispiegamento di una missione elettorale nel paese in risposta alle sanzioni emesse da Bruxelles contro alcuni membri del governo. Nelle ultime ore l’Organizzazione delle Nazioni Unite e il Centro Carter hanno confermato la presenza dei loro esperti, anche se in entrambi i casi hanno ammesso che l’osservazione sarà solo parziale.
L’opposizione sostiene che non esistono garanzie del fatto che il governo accetti il risultato elettorale del 28 luglio. González Urrutia ha poi però declinato l’invito a firmare un patto in questo senso, accettato da tutti gli altri candidati alle presidenziali, sostenendo che si tratta di un’imposizione unilaterale da parte del governo, e ha lanciato un appello affinché la comunità internazionale garantisca il rispetto della volontà popolare espressa nelle urne. Molte le questioni in gioco: dal futuro del petrolio venezuelano – che i settori più ultra della coalizione oppositrice vorrebbero privatizzare al più presto – a quello dei quasi 7 milioni di venezuelani espatriati negli ultimi vent’anni. La diaspora venezuelana è ormai una delle più grandi al mondo, e la presenza delle comunità di migranti ha già causato problemi diplomatici in passato. Le elezioni del 28 luglio sono dunque molto rilevanti per la regione, il cui equilibrio geopolitico dipende anche dall’ordine che verrà stabilito intorno alla gestione della spinosa “questione venezuelana”.
Sebbene la campagna elettorale verso le presidenziali del prossimo 28 luglio inizierà ufficialmente tra una settimana, il clima pre-elettorale è già in moto in Venezuela. Dopo le polemiche che hanno seguito la confezione delle liste elettorali, il panorama è ormai ben chiaro: Nicolás Maduro, al potere dal 2013, cercherà di ottenere il suo terzo mandato consecutivo, e il principale sfidante sarà il diplomatico Edmundo González Urrutia, della Piattaforma Unitaria Democratica, la coalizione che riunisce la maggior parte delle forze di opposizione in Venezuela. Vi sono altri otto candidati alla presidenza, ma Maduro e Urrutia concentrano, secondo i principali sondaggi, più del 95% dei voti.
Non esiste, per ora, alcun sondaggio favorevole all’attuale presidente. La differenza oscilla tra il 20 e il 40% dei voti a favore della coalizione di opposizione secondo tutti i sondaggi finora pubblicati. Il grande mistero però è l’astensionismo: la carta che potrebbe giocare a favore del chavismo oggi – contrariamente a quel che ha contraddistinto il movimento popolarissimo in passato – è proprio l’astensione di una fetta considerevole dell’elettorato. Se i sostenitori più convinti del governo – tra il 25 e il 30% della popolazione secondo le stime più generose – non hanno dubbi sul fatto che andranno a votare il 28 luglio, il resto dell’elettorato non sembra così convinto.