VENEZUELA CONTRO MADURO – In tutto il Venezuela, decine di migliaia di persone si sono radunate, nonostante i blocchi dell’Esercito, nelle strade, autostrade e stazioni della metro chiuse a Caracas, per protestare contro la decisione dell’esecutivo di bloccare la raccolta di firme per un referendum di revoca del Governo, previsto dalla Costituzione.
Mentre l’opposizione, che a dicembre ha vinto ampiamente le elezioni, chiamava i venezuelani alla “presa del Venezuela”, il Presidente, Nicolas Maduro del Partito socialista chavista (Psuv), faceva il giro del Medio Oriente per promuovere un prezzo del petrolio più alto e fugare lo scenario di una bancarotta della Società statale del petrolio, dalla quale l’economia dipende per il 95%.
La totale e rovinosa impasse istituzionale tra i tre poteri sembra essere al momento l’unica opzione per il Governo per resistere al disastro economico e alla crisi umanitaria restando al potere. Il Parlamento è in mano all’opposizione, ma non è riconosciuto dall’esecutivo, dopo una sentenza della Corte Suprema per vilipendio (la CS è apertamente pro-chavista). Rimandando il referendum al 2017, lo Psuv può mantenere Maduro al potere fino alla fine del mandato nel 2018. Consapevole del fatto che ora conta sul sostegno di meno del 20% della popolazione e che alle elezioni perderebbe, l’élite dirigente militare chavista sta cercando di guadagnare tempo per mantenere il potere a tutti i costi, anche a rischio del collasso istituzionale, dell’isolamento internazionale e di una drammatica agonia dell’economia.
Questo è l’unico modo per l’establishment di evitare che si scoperchi la gestione chavista dei proventi del petrolio dell’ultima decina d’anni; di evitare un default della Società statale del petrolio Pdvsa e quindi del Paese – con tutto ciò che questi default implicherebbero in termini di accuse penali per i leader (Brasile docet); e, infine, di non essere ritenuti responsabili del costante crollo produzione di petrolio ormai del quasi 10% annuo.
Proprio questo è il motivo per il quale la Cina, il maggiore creditore esposto per 20 miliardi di dollari secondo gli esperti, ora sta chiudendo i rubinetti di liquidità e investimenti: il petrolio che le arriva per ripagare il debito è sempre meno e il clima interno è tutto fuor che l’ideale per gli investimenti.
La pagella del Paese non lascia dubbi sulla qualità della gestione economica: con le maggiori riserve di petrolio al mondo, l’inflazione annua tocca il 700% annuo e potrebbe balzare a un inimmaginabile 1500% nel 2017 (dati Ubs); più del 60% della popolazione vive in povertà e si muore letteralmente di fame e penurie.
Poiché è stato il presidente Maduro a bloccare il referendum di revoca, il Parlamento in una sezione speciale domenica scorsa ha istituito una commissione che valuti la sua “responsabilità penale e politica” per aver “spezzato l’iter costituzionale”, secondo quanto prevede la Costituzione. Il Parlamento lo può giudicare solo politicamente e, a questo fine, lo ha convocato il prossimo martedì per rispondere e difendersi dalle accuse in Aula.
L’altra decisione del Parlamento, quella di chiedere all’Organizzazione degli Stati Americani di convalidare il deterioramento della democrazia nel Paese, se accettata taglierebbe fuori il Venezuela dal concerto latinoamericano. Ieri, 26 ottobre, 12 presidenti latinoamericani hanno sollecitato un dialogo in Venezuela e lo stesso giorno i Ministri degli Esteri del Mercosur hanno deciso di valutare se la crisi della democrazia in Venezuela non giustifichi una sua sospensione. Paradossalmente, il suo maggiore alleato, Cuba, si apre sempre di più.
Per guadagnare tempo, il Governo ha innanzitutto convocato il Consiglio della difesa che resterà attivo in permanenza e, secondo, continua a sbandierare la possibilità di un “dialogo” tra governo e opposizione.
Tornando dal Medioriente, Maduro si è fermato al Vaticano, che da tempo si dice preoccupato per la situazione della popolazione in Venezuela. L’inviato del Papa, monsignore Emir Paul Tscherrig è arrivato a Caracas, ma l’opposizione è venuta a saperlo dalla stampa e per ora non parteciperà quindi ad alcuna trattativa. Le condizioni per un dialogo, ripetono, sono la liberazione dei prigionieri politici, reali misure contro la crisi e che si permetta il referendum: “[Il governo] si sta servendo della buona fede di Papa Francesco e di quella del Nunzio per sostenere che qua non sia successo niente”.
Gli eventi stanno accelerando nel Paese in rovina. Per oggi, venerdì 28 ottobre, il Tavolo unitario democratico (Mud) ha convocato uno sciopero nazionale di 12 ore, un’altra occasione per mostrare l’appoggio popolare con cui conta l’opposizione. Si starà a vedere se Maduro si presenterà al Parlamento per l’interrogazione il 1 novembre.
Per l’opposizione il tempo stringe se si vuole ottenere che il Governo ripristini l’iter costituzionale del referendum e si voti prima del 2017. Il leader dell’opposizione e Governatore dello Stato di Miranda, Henrique Capriles, ha detto: “Dico chiaramente a voi, signori del Governo, o ripristinate l’ordine costituzionale o noi il 3 novembre andremo al Palazzo presidenziale a Miraflores per ripristinare la democrazia… Dalla marcia di oggi [la presa del Venezuela] non si torna indietro”.
Curiosamente, l’agenda del Governo coincide con quella della grande finanza che detiene obbligazioni sovrane venezuelane. Molti analisti prevedono che Maduro resti al potere fino al 2018 e che poi, non potendo vincere le elezioni, instauri una dittatura. “Il Venezuela sarà pure il peggior paese in America Latina, ma le sue obbligazioni sono estremamente appetibili”, recita il titolo di un articolo di Forbes.
Approfittando della decisione della Corte Suprema di dichiarare nulle tutte le decisioni del Parlamento, Maduro ha approvato in prima persona il bilancio 2017 con un aumento della spesa del 447,6% (e violando sette articoli della Costituzione, secondo El Nacional). Una fetta è destinata alle Misiones, i sussidi sociali di cui beneficia il 20% che sostiene il governo chavista e che continuerà presumibilmente a votarlo.
Il fatto è che, ancora una volta, di una democrazia ferita beneficiano solo le minoranze. In questo caso una minoranza locale e gli speculatori finanziari.