
Stamattina l’India si è accorta nuovamente di avere un gigantesco problema di genere, apprendendo dell’ultimo stupro di gruppo avvenuto a Mumbai. Una fotoreporter di 22 anni è stata violentata da cinque uomini e si ricomincia il balletto delle indignazioni e delle accuse, constatando che dalla tragedia di Delhi dello scorso dicembre non è cambiato assolutamente nulla.
Su questo blog se ne era già parlato qualche tempo fa: nove mesi fa, quando un’universitaria è stata violentata brutalmente su un bus di Delhi ed è morta per le ferite riportate, la società indiana aveva avuto la grande occasione per affrontare di petto la questione femminile nel Paese, andando alla radice di comportamenti discriminatori e machisti strettamente legati alla violenza.
Il tema, sollevato dagli studenti universitari scesi in piazza, è stato immediatamente dirottato dalla politica, riconducendo il dibattito a un problema di ordine pubblico, sicurezza, applicazione della legge, inasprimento delle pene, appelli per l’introduzione della castrazione chimica o della pena di morte per gli stupratori.
Rischio la generalizzazione: si tratta di un atteggiamento tipico della classe dirigente indiana, se vogliamo della società indiana in toto, affetta da un’acutissima forma di permalosità e allergia all’autocritica. Rimanendo nel tema della violenza contro le donne – ma il paradigma è applicabile anche all’economia, alla povertà, al peso nella comunità internazionale, alla discriminazione razziale e religiosa – la reazione indiana ufficiale è sempre settaria e autoassolutoria.
Una ragazza viene attaccata dopo le 5 di sera: cosa ci faceva ancora in giro a quell’ora?
Era vestita in jeans e maglietta: colpa dei costumi occidentali!
Colpa dei musulmani, degli estremisti hindu, delle minoranze etniche, della polizia che non ci protegge, dei giovani di oggi, dei messaggi che manda la tv, del porno online, delle pene troppo leggere, della lentezza dei tribunali, dei social network, dei telefonini (!!!), delle ragazze che escono di casa da sole, della mancanza di telecamere a circuito chiuso o di illuminazione nelle strade… si potrebbe andare avanti all’infinito, raccogliendo le centinaia di reazioni che in questi mesi hanno commentato la striscia ininterrotta di stupri e maltrattamenti che giornalmente si verificano nello sterminato territorio indiano.
Un fuoco incrociato tra settori della società indiana in conflitto perenne, dove il dramma dell’ennesima vittima diventa nuovo pretesto per attaccare l’altro e riaffermare la propria autorità politica, morale, consolidare il potere.
L’alternativa sarebbe ammettere un fallimento su tutta la linea nella sfida culturale alla tradizione maschilista e discriminatoria, che in modo assolutamente trasversale in fatto di religione, casta, status sociale, etnia, tenore di vita, nazionalità, dal 1947 ad oggi continua a negare alla donna una serie di diritti e di libertà, costringendola all’interno di regole di condotta, ubbidienza e “rispettabilità” non degne di un’India democratica.
L’immagine che da decenni viene proiettata all’estero racconta un’India bonaria, spirituale e geneticamente pacifista che non trova corrispondenze nella realtà. E ogni volta che la quotidianità della violenza di genere buca l’indifferenza dell’informazione – come in questo caso, il primo ad avere eco mediatica rilevante poiché avvenuto nel simbolo del progressismo e dell’India moderna, Mumbai – si fa tutti finta di svegliarsi di soprassalto da un incubo. Ci si indigna e si scuote la testa, signora mia!, come se il problema fosse sempre e solo degli altri, lontano, estraneo.
Recentemente una testimonianza – un po’ sopra le righe, a dire il vero, ma sostanzialmente veritiera – di una studentessa americana alla Cnn aveva nuovamente tolto il velo di ipocrisia col quale si tende a raccontare e raccontarsi l’India idealizzata.
Rose Chasm, in India: the Story You Never Wanted to Hear, descrive giorni di vita ordinaria nel subcontinente per una ragazza occidentale: amicizie e momenti memorabili alternati a stalking, masturbazioni in pubblico, palpate nella folla, avance insistenti, decine di occhi puntati costantemente addosso, bersaglio mobile di fantasie sessuali represse. L’humus della discriminazione che porta agli stupri è quello, ed è una condizione che l’India condivide – con le dovute proporzioni demografiche – con gran parte del pianeta Terra. Ancora una volta dobbiamo chiederci: perché ci ostiniamo a considerare l’India come un Paese anormale, speciale? Perché ci ostiniamo – noi come gli indiani – a fermarci all’indignazione senza accettare che il problema della violenza contro le donne coinvolge tutti noi e richiede una risposta culturale – lunga, complessa, faticosa, svilente, destabilizzante – e non una strategia del terrore a disincentivare “la bestia che è in ogni uomo” (leitmotif del perbenismo, anche indiano)?
Da dove si comincia? Un’idea potrebbe essere iniziare ad allentare la repressione sessuale ed aprire il dibattito sui germogli della discrminiazione e della convivenza civile tra uomo e donna in India, la condivisione dello spazio pubblico e di diritti paritari ad uscire la sera, divertirsi, passeggiare con le amiche, tenersi per mano, avere un fidanzato, baciarsi, amarsi alla luce del sole e vivere la sensualità e la sessualità del proprio corpo senza doversi sentire sporchi, immorali e sconci. Con buona pace dei castratori e dei boia.
Stamattina l’India si è accorta nuovamente di avere un gigantesco problema di genere, apprendendo dell’ultimo stupro di gruppo avvenuto a Mumbai. Una fotoreporter di 22 anni è stata violentata da cinque uomini e si ricomincia il balletto delle indignazioni e delle accuse, constatando che dalla tragedia di Delhi dello scorso dicembre non è cambiato assolutamente nulla.