Politici, attivisti e giornalisti vicini all’opposizione sono finiti nel mirino della repressione orchestrata dalla Lega popolare al potere, che usa anche l’accusa di “fake news” per imbavagliare chi dissente. Il 30 dicembre tocca agli elettori, ma il ritorno alla democrazia appare lontano
In vista delle votazioni del 30 dicembre, l’orizzonte politico del Bangladesh è diviso in due schieramenti. Da un lato c’è la Awami League (Al, Lega Popolare) del primo ministro Sheikh Hasina, alla ricerca di un nuovo storico mandato. Dall’altro il Jatiya Oikya Front (Jof, Fronte Nazionale Unito), coalizione creata il 13 ottobre sotto la guida di Kamal Hossain del Gano Forum (Forum del Popolo). Oltre al partito di Hossain, il Jof conta sull’appoggio del Jatiya Samajtantrik Dal (Jsd, Partito Nazional Socialista), del Nagorik Oikya, della Lega dei Lavoratori del Popolo (Krishak Sramik Janata League, Ksjl) e dell’altro grande partito nazionale assieme all’Al, il Bangladesh National Party (Bnp) dell’ex primo ministro Khaleda Zia, condannata a febbraio a cinque anni di carcere per il reato di corruzione. Pena estesa a novembre dopo un’altra sentenza di colpevolezza, stavolta per abuso di potere. Sono in tutto sette gli anni di detenzione che Zia dovrà scontare nel penitenziario della capitale, estromettendola dalla lista degli eleggibili per effetto di una norma che in Bangladesh vieta la candidatura a chi sta estinguendo pene superiori ai due anni.
Secondo i rappresentanti del Bnp e del Jof, il carcere imposto alla principale rivale di Sheikh Hasina risponderebbe a necessità politiche, rientrando in un disegno attuato dal governo per condizionare l’esito delle 11esime elezioni parlamentari dall’indipendenza del 1971. Khaleda Zia sarebbe la vittima più illustre ma la lista conta innumerevoli politici, rappresentanti della società civile e giornalisti messi a tacere con arresti indiscriminati, censura, violenze, intimidazioni e con la sistematica repressione attuata dalle forze di sicurezza orchestrate dalla Al. In dubbio anche l’affidabilità della commissione elettorale e degli organi giudiziari, istituzioni che dovrebbero garantire elezioni “libere e corrette”, così come auspicato da un portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres.
A destare l’attenzione sulle elezioni del 30 dicembre sono i media nazionali e internazionali, cui si aggiungono le organizzazioni umanitarie, a partire da Human Rights Watch (Hrw) che ha da poco pubblicato un dossier in cui riporta dati e testimonianze raccolte tra ottobre e dicembre. Innumerevoli rappresentanti dell’opposizione e giornalisti hanno denunciato attacchi da parte di teppisti filo-governativi. Dall’apertura della campagna elettorale l’8 novembre almeno sei persone sono rimaste uccise negli scontri avvenute sulle strade della capitale, quattro vittime nelle fila del Bnp, due dell’Al.
La situazione è complicata dagli abusi commessi dalle forze di sicurezza – molte le testimonianze di torture, pestaggi e un caso di uccisione in detenzione – e la censura affidata ai paramilitari del Rapid Action Battalion (Rab), in passato autori di violazioni dei diritti umani, di uccisioni extragiudiziarie e della scomparsa di personalità scomode. In vista dell’apertura delle urne, al Rab è stato assegnato il monitoraggio dei social media per individuare e mettere a tacere le voci più critiche, o gli autori (presunti) di fake news. Tra gli episodi più discussi, l’arresto di Enamul Haque Mony, dottorando di Dhaka, intercettato dagli agenti del Rab il 23 novembre, quando stava per imbarcarsi su un volo per rientrare nella sua università in Corea del Sud. Dopo l’episodio di Mony – accusato di aver diffuso notizie false via social – il 10 dicembre il National Telecommunication Monitoring Center del ministero dell’Interno ha ordinato la chiusura o la sospensione di 54 siti web, alimentando la percezione di un tentativo di condizionare l’informazione in vista del voto.
Citando i dati forniti dal segretario generale del Bnp, Ruhul Kabir Rizvi, Hrw documenta innumerevoli azioni legali ai danni di leader e sostenitori dei partiti di opposizione, da cui l’interdizione per molti di loro dall’attività politica. Circa tremila cause coinvolgono 300mila politici e attivisti bengalesi, diverse delle quali palesemente montate, in più casi ai danni di nomi noti dei partiti di opposizione, accusati di “aver ordito attività sovversive” malgrado i presunti colpevoli fossero defunti da anni.
Molti degli arrestati hanno subito pestaggi, minacce e torture, inclusi i giornalisti finiti in custodia per effetto della famigerata sezione 57 dell’Information and Communication Technology Act (Icta), legge che dalla sua introduzione ha soffocato la stampa libera, costringendo i principali media all’auto-censura preventiva, come denunciato da Reporter sans Frontières. Per effetto del Icta – sostituita a ottobre con il più rigido Digital Security Act (Dsa) – il fotografo e attivista Shahidul Alam ha scontato 107 giorni in carcere per aver diffuso su Facebook immagini delle violenze commesse dalla polizia durante manifestazioni studentesche ad agosto.
L’ultimo episodio risale al 24 dicembre, giorno in cui dieci giornalisti sono rimasti feriti in un attacco subito al termine di un incontro elettorale, in un hotel di Dhaka. La squadra degli assalitori era composta da giovani con il volto coperto e armati con mazze da hockey, tutti fuggiti prima dell’intervento della polizia, che non sembra sia riuscita a identificare nessuno. Quanto accaduto alla vigilia di Natale allunga la lista degli abusi subiti dai giornalisti bengalesi, sempre più limitati ed esposti nello svolgimento del loro lavoro, così come riportato da Reuters dopo aver intervistato 32 operatori dell’informazione.
Oltre alla repressione degli oppositori, in campagna elettorale l’AL ha puntato sui risultati ottenuti durante l’era Hasina, presentando un manifesto politico centrato su “crescita e governance”. In caso di rielezione, il partito al potere promette di incrementare la crescita del Pil, portandola dall’attuale 7,8% al 10% entro cinque anni, di favorire l’occupazione e di rilanciare gli investimenti nelle infrastrutture. Anche il Jof mette tra le priorità economia e sviluppo, aggiungendo anche nuovi interventi per ripristinare la democrazia nel Paese, compromessa – secondo la coalizione – durante il doppio mandato di Sheikh Hasina. La palla passa ora ai 100 milioni di elettori bengalesi, 40 milioni dei quali giovani e 20 milioni per la prima volta alle urne. In teoria dovrebbe spettare a loro scegliere se dare continuità al governo dell’Awami League, o se voltare pagina affidando alla super-coalizione del Jof la formazione del nuovo governo e il ripristino della democrazia in Bangladesh.
@EmaConfortin
Politici, attivisti e giornalisti vicini all’opposizione sono finiti nel mirino della repressione orchestrata dalla Lega popolare al potere, che usa anche l’accusa di “fake news” per imbavagliare chi dissente. Il 30 dicembre tocca agli elettori, ma il ritorno alla democrazia appare lontano