Lo scorso 20 maggio un giovane insegnante congolese è stato pestato a morte in un quartiere di Delhi sud. La colpa? Essere «negro». Simili aggressioni non sono nuove in India e i morti di razzismo si contano anche all’interno del variegato tessuto demografico locale. Ma quando le vittime sono africane pare sia più difficile prendere atto, a livello pubblico, dell’enorme questione della violenza a sfondo razziale che caratterizza il paese.
Si chiamava MT Oliva, aveva 23 anni e, secondo Indian Express, non stava facendo altro che tornarsene a casa dopo una serata con gli amici nel quartiere di Vasant Kunj, nella parte meridionale di New Delhi, dove la proliferazione di locali per i giovani della middle class da anni si sta intensificando.
Oliva, secondo le ricostruzioni, stava banalmente litigando con un guidatore di riksha per fissare il prezzo da pagare per farsi riportare a casa: una scena comunissima che unisce stranieri e indiani residenti in città. Ma se un indiano o un bianco se la possono cavare con qualche insulto, nei casi peggiori, per il cittadino congolese le cose sono andate diversamente: è stato rincorso per almeno 20 metri da un gruppo di indiani che hanno iniziato a picchiarlo con pietre e bastoni, fino a lasciarlo tramortito a terra. Quando i soccorsi sono arrivati, Oliva era morto.
Le autorità hanno arrestato tre uomini, tutti cittadini indiani.
Il tutto succedeva a pochi giorni dall’India Africa Summit di New Delhi, meeting istituzionale al quale diversi rappresentanti africani minacciavano di non partecipare, in solidarietà con la morte di Oliva. Negli stessi giorni, gruppi di studenti africani residenti a Delhi – e sono molti – hanno organizzato proteste pubblice e sit-it a Jantar Mantar, il parco nel centro della capitale dove tradizionalmente si tengono manifestazioni anti-establishment.
Grazie a un lavoro di ricucitura certosina dei rapporti portato a termine dalla ministra degli esteri Sushma Swaraj, il summit indoafricano si è tenuto come da programma, senza defezioni, mentre il governo indiano assicurava ai parenti della vittima un processo lampo e una «pena esemplare» per gli imputati.
Ma, ci ha tenuto a chiarire Swaraj, non si è trattato di un crimine a sfondo razziale, poichè «c’erano anche indiani che hanno provato ad aiutare Oliva». Un appunto che mal si concilia con la storia recente di aggressioni ai danni di africani, episodi sempre meno infrequenti anche nel resto del paese.
Negli ultimi due anni si ricorda un’aggressione a un gruppo di studenti della Tanzania a Bangalore, individuati dalla folla come i criminali al volante che avevano investito poche ore prima un passante (ma al volante c’era un sudanese); nell’ottobre del 2014, tre studenti di Gabon e Burkina Faso hanno rischiato il linciaggio nella stazione di Rajiv Chowk, sempre a New Delhi.
E di questo episodio c’è anche un video, terrificante, per dare la misura di ciò che si rischia ad essere africani in India.
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E anche a Goa, generalmente considerata oasi felice e freakketona – a torto!, la comunità africana non se la passa bene per niente.
È indubbio che gli africani scontino, anche in India, il pregiudizio di comunità legata ad attività illegali – spaccio e prostituzione, in particolare – ma il problema, enorme, è la gestione della «giustizia» affidata all’iniziativa spontanea popolare. Una peculiarità che in India fa vittime non solo straniere, ma che declinata contro il «nemico negro» non può più essere mascherata da «incidenti» causati da poche mele marce.
@majunteo
Lo scorso 20 maggio un giovane insegnante congolese è stato pestato a morte in un quartiere di Delhi sud. La colpa? Essere «negro». Simili aggressioni non sono nuove in India e i morti di razzismo si contano anche all’interno del variegato tessuto demografico locale. Ma quando le vittime sono africane pare sia più difficile prendere atto, a livello pubblico, dell’enorme questione della violenza a sfondo razziale che caratterizza il paese.