Come la Cina, rapida e inarrestabile, anche Ai Weiwei, il suo fenomeno, è mutato nel tempo. La raccolta di aforismi proposta in Italia da Einaudi (Weiweismi, Einaudi, 2013), dimostra per certi versi questo cambiamento, radicalizzato oggi in una figura che specie in Occidente, al solito, viene racchiusa da nuovi stereotipi. Un libretto di citazioni, come quello tanto criticato di Mao – del resto Ai Weiwei scrive che il Timoniere sarebbe perfetto all’epoca di Twitter: “Il presidente Mao è stato il primo al mondo a usare Twitter. Tutte le sue citazioni stanno entro i centoquaranta caratteri”- che ha il grande pregio di mostrare Ai Weiwei molto più scevro da tante etichette di quanto si pensi: un uomo che si esprime e che contrariamente a quanto viene propagandato – che di propaganda si tratta – può farlo.
Di rimando, nell’immediato ci sarebbe una prima semplice considerazione: quanti sono gli attivisti cinesi impegnati nel mondo del lavoro, nello sfruttamento delle persone, dell’ambiente, dei villaggi fatti scempio dall’urbanizzazione, che non hanno voce, che non hanno una ripresa internazionale – quando non recensioni “generose” – ad ogni sussulto? Domanda retorica, naturalmente, anche perché la Cina – e per certi versi Ai Weiwei – è quell’animale storico, che appena lo osservi da vicino, ha già mutato forme. E quando ci si avvicina ad un argomento come la Cina, come per Ai Weiwei, ci sono due piani di analisi: quello che è e quello che viene raccontato. E nella narrazione mainstream del fenomeno Ai Weiwei – basta leggere la recensione del volume Einaudi effettuata da Gianni Riotta – si racchiude tutta la superficialità e leggerezza, negativa, con cui si parla, si descrive e ci si autoincensa in quanto grandi conoscitori, della Cina. Qualcosa che in realtà, proprio come Ai Weiwei, ad ogni spasmo di lucidità, apre baratri di incomprensione.
Ai Weiwei fino a un paio d’anni fa era solo un artista, noto nel mondo per il Nido d’Uccello, lo stadio Olimpico di Pechino. Nel 2009 quando proponevo di intervistare Ai Weiwei i media italiani sembravano immuni all’interesse per un artista che poco a poco e poi in maniera sempre più sfacciata, sembrava disposto a ridicolizzare quanto esiste di più ridicolizzabile: il potere. Con il terremoto del Sichuan nel 2008 e la denuncia dei funzionari e le morti dei bambini per il crollo della scuole, ricordati su Twitter attraverso i loro nomi, ogni anno, nel giorno del loro compleanno, Ai Weiwei era uscito allo scoperto. Prima aveva dichiarato di boicottare le Olimpiadi, prendendosi qualche accusa dell’ingrato, come a dire, “prima ti fai pagare per lo stadio, poi dici che le Olimpiadi sono lo show del potere del Partito?” Troppo facile si disse all’epoca, in Cina. Poi arrivò il terremoto, nel maggio 2008, e Ai Weiwei cominciò un lavoro di denuncia clamoroso per i tempi di allora. Quando ancora non c’era Weibo, Twitter era ancora un oggetto misterioso occidentale, Internet non vedeva quella straordinaria partecipazione popolare in termini numerici. Il fenomeno Ai Weiwei nel 2010 comincia a tempestare Twitter di denunce, di ironia contro il potere costituito cinese. Non ha una linea, va di pancia, costruisce stratagemmi comunicativi, organizza una festa nel suo studio a Shanghai, colorandola di granchi, hexie, lo stesso suono della parola “armonia”; il mantra della stagione Hu Jintao Wen Jiabao. Quando lo incontrai per un’intervista nel 2010, Ai Weiwei mi parve un fantastico prodotto della cultura cinese, capace di tenere al proprio interno l’artista mainstream, ricco come tanti altri cinesi e nello stesso tempo critico verso il mondo da cui – paradosso o meno – era uscito. Fino ad allora era come tanti altri: un cavallo solitario, impegnato in uno scontro impari. Con la sua adesione all’entusiasmo del web, ha cominciato a raccogliere intorno a sé blogger e attivisti digitali, superando il limite consentito dal Partito Comunista, ovvero porsi alla testa di qualcosa che potenzialmente può essere dannoso. Lo incontrai ai domiciliari, poche settimane prima di essere rapito, perché Ai Weiwei venne fatto sparire per tre mesi, grazie al diritto cinese che consente parecchi poteri alle forze di polizia (ovvero: non venne messo in prigione e questo dato non migliora l’immagine del diritto in Cina, ma testimonia come i meccanismi di controllo del Dragone siano complessi quanto i suoi protagonisti). Una volta uscito, era apparso spaventato, silenzioso. Si capì che aveva barattato la propria libertà con il silenzio e per certi versi lo capimmo tutti. Poi via via, riprese l’opera di comunicazione. D’altronde, come scrive nei weiweismi, “Esprimersi è come una droga. Sono espressione- dipendente in una maniera spropositata”. Non gli si può negare la sincerità, ad Ai Weiwei. E’ che l’espressione per l’espressione non ha la forza di quanto viene detto perché c’è un respiro collettivo (il terremoto del Sichuan, l’accolito di blogger e attivisti o come in altri casi la Charta08 o chi organizza gli scioperi dei lavoratori, chi denuncia le espropriazioni forzate di terre, gli abitanti dei villaggi che chiedono elezioni trasparenti). E non a caso è consentito: Ai Weiwei ha potuto fare mostre, un video – ridicolo – sulla musica di Gangnam Style, un album metal (con un video che racconta la sua detenzione e che termina con la sua trasformazione in trans, senza alcuna spiegazione se non la perversa logica dell’artista che chiede sempre a se stesso di stupire in qualche modo, anche quando lo stupore è fine a se stesso). Ogni espressione, una recensione, ogni “uscita”, una visibilità straordinaria internazionale. E ora questa raccolta di aforismi, che ha un grande merito: racconta la fenomenologia di un depotenziamento che racchiude in sé la forza del controllo cinese. Rendere privo di forza, isolare, rendere vano per la collettività, un diluvio di parole, libero e consentito.
Come la Cina, rapida e inarrestabile, anche Ai Weiwei, il suo fenomeno, è mutato nel tempo. La raccolta di aforismi proposta in Italia da Einaudi (Weiweismi, Einaudi, 2013), dimostra per certi versi questo cambiamento, radicalizzato oggi in una figura che specie in Occidente, al solito, viene racchiusa da nuovi stereotipi. Un libretto di citazioni, come quello tanto criticato di Mao – del resto Ai Weiwei scrive che il Timoniere sarebbe perfetto all’epoca di Twitter: “Il presidente Mao è stato il primo al mondo a usare Twitter. Tutte le sue citazioni stanno entro i centoquaranta caratteri”- che ha il grande pregio di mostrare Ai Weiwei molto più scevro da tante etichette di quanto si pensi: un uomo che si esprime e che contrariamente a quanto viene propagandato – che di propaganda si tratta – può farlo.