La globalizzazione dell’inglese lo sta portando alla frammentazione.
Il 5 settembre del 1780 John Adams, futuro successore di George Washington alla Presidenza degli Stati Uniti, scrisse al Congresso una lettera in cui prevedeva per la lingua inglese un ruolo internazionale paragonabile a quello svolto nel passato dal latino, e dal francese nel XVIII secolo. Egli chiama in causa il rapporto tra forma di governo, popolazione e lingua: una repubblica libera si fonda sul discorso politico (sull’eloquenza) e pertanto nel suo seno la lingua si raffina e si purifica (il riferimento esplicito è ad Atene e Roma). Gli Stati Uniti, con la loro democrazia e la loro dinamica demografica, avrebbero fatto dell’inglese una lingua mondiale.
La previsione si è avverata: l’inglese è una delle lingue maggiormente presenti nel mondo contemporaneo. Ma la diffusione globale dell’inglese non è avvenuta nel segno della classicità linguistica a cui fa riferimento Adams, ma in quello della differenziazione interna.
Proprio l’inglese degli Stati Uniti è la varietà che per prima ha reclamato una sua autonomia rispetto alla norma britannica. Le differenze sono ben note, e visibili soprattutto nella fonetica e nel lessico. Fenomeni simili caratterizzano anche le altre nazioni in cui l’inglese è lingua materna per effetto della colonizzazione: l’Irlanda, il Canada, alcune realtà caraibiche, l’Australia, la Nuova Zelanda.
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La globalizzazione dell’inglese lo sta portando alla frammentazione.