Il Washington Post ha espresso scetticismo sul fatto che saranno i soldati nepalesi, e non quelli italiani, a proteggere le sedi del governo di unità nazionale libico. Anche perché in patria i compiti per i soldati di Katmandu non mancano, soprattutto dopo lo spaventoso terremoto del 25 aprile 2015, che ha provocato più di ottomila morti. Le immagini del sisma, un’apocalisse vista dall’alto, fanno parte del catalogo del “World Press Photo”, (probabilmente) il premio più importante di fotogiornalismo, la cui mostra adesso fa tappa a Roma (fino al 29 maggio, al Museo di Roma in Trastevere).
Da 59 anni una giuria indipendente, formata da esperti internazionali, valuta migliaia di immagini inviate alla World Press Photo Foundation di Amsterdam da fotogiornalisti di tutto il mondo (per il 2015 82.951 fotografie, inviate da 5.775 autori di 128 nazionalità). Quest’anno la giuria, che ha suddiviso i lavori in otto categorie, ha premiato 42 fotografi di 21 paesi.
È stato l’anno dei migranti, il 2015, e il giornalismo fotografico, per definizione legato all’attualità, alla storicità dell’istante, non poteva non riflettere la realtà di un simile fenomeno di massa. Da “Hope for New Life”, vincitrice nella categoria “Spot News” – autore, l’australiano Warren Richardson – la foto di un uomo che fa passare un bambino attraverso il filo spinato, al confine tra Ungheria e Serbia, fino alle immagini bibliche colte da Sergey Ponomarev, con i profughi in arrivo a Lesbo, su barconi in equilibrio precario, le file davanti ai centri di registrazione, i lacrimogeni della polizia che respinge l’umanità raccolta davanti ai tanti muri spuntati nel cuore della vecchia Europa, soprattutto di quella asburgica. Oppure gli scatti da Lampedusa dell’italiano Francesco Zizola, che sembrano usciti da “Fuocoammare” di Rosi, con gli sguardi, persi nel vuoto, di chi ce l’ha fatta a toccare terra, e quelli del pluripremiato Bulent Kilic in “Broken Border”, reportage da una delle frontiere più discusse del pianeta, tra Siria e Turchia, un confine che si apre e si chiude a seconda delle volontà politiche, e a cui bussa la disperazione di chi ha lasciato alle spalle la propria vita per cause di forza maggiore.

Perché le migrazioni sono conseguenza, in primo luogo, delle guerre, a partire dalla mattanza siriana, e in mostra c’è la Siria devastata, come l’area di Ghouta Est, vicino a Damasco, in mano all’opposizione e martellata da Assad, ci sono le vittime per definizione di ogni conflitto, i bambini, e ci sono i combattenti, come quel miliziano dello Stato Islamico che giace, ferito, in un ospedale dei nemici curdi, sotto un gigantesco poster di Ocalan, padre e simbolo dell’irredentismo. E, dal momento che il giornalismo per immagini è – più ancora di quello che si serve della parola scritta – strumento di denuncia sociale, alcuni reportage in mostra raccontano storie meno note, come le violenze sessuali contro le donne nell’esercito americano, spesso tenute nascoste, ma in grado di generare a lungo termine alcolismo, tossicodipendenza, disagi economici (tra le donne reduci le homeless sono in grandissima crescita). Oppure i ragazzini delle scuole coraniche del Senegal, picchiati, tenuti in catena, costretti a mendicare per 8-9 ore al giorno e a dare tutti i guadagni al marabout, il loro insegnante.
L’iconografia del regime nordcoreano, invece, è già una letteratura a sé, come se il Paese più ermetico del pianeta costituisse una realtà fuori dal tempo: il World Press Photo premia le opere dell’americano David Guttenfelder, dell’Associated Press, a cui è stato concesso di visitare la Corea del Nord una quarantina di volte, tra il 2008 e il 2015: si parte dalla surreale immagine di un vigile addetto a un traffico che non c’è, al centro di un incrocio di Pyongyang, per arrivare a uno studente che impara a guidare un trattore, su un simulatore di guida computerizzato, singolare fusione di mestiere antico e modernità.
I fotografi sembrano avere un debole per i riti tradizionali, come quello di Colmenar Viejo, periferia di Madrid: ogni anno, ad inizio maggio, per festeggiare la primavera, si preparano altari decorati con piante e fiori, sulla piazza principale e nelle vie adiacenti, e ogni gruppo sceglie una ragazzina tra i 6 e i 15 anni, che sarà la “maya” e dovrà restare seduta sull’altare, immobile, seria, silenziosa, indossando una gonna, una camicetta bianca e il mantón Manila, il tipico scialle. In mostra, purtroppo, non ci sono molte immagini edificanti, come se fotografare la sofferenza fosse più necessario che ritrarre il suo opposto. E il futuro, passeggiando al museo di Trastevere sembra una nuvola minacciosa, come quella che un’ignara bagnante, fotografata da Rohan Kelly, non riesce a vedere all’orizzonte, distesa sulla sabbia di Bondi Beach, Sydney.
World Press Photo
29 aprile – 29 maggio 2016
Museo di Roma in Trastevere
Roma, Piazza S.Egidio 1B
Martedì-domenica 10.00-20.00
Venerdì 10.00 – 23.00
Per informazioni:
www.museodiromaintrastevere.it
www.worldpressphotoroma.it
Il Washington Post ha espresso scetticismo sul fatto che saranno i soldati nepalesi, e non quelli italiani, a proteggere le sedi del governo di unità nazionale libico. Anche perché in patria i compiti per i soldati di Katmandu non mancano, soprattutto dopo lo spaventoso terremoto del 25 aprile 2015, che ha provocato più di ottomila morti. Le immagini del sisma, un’apocalisse vista dall’alto, fanno parte del catalogo del “World Press Photo”, (probabilmente) il premio più importante di fotogiornalismo, la cui mostra adesso fa tappa a Roma (fino al 29 maggio, al Museo di Roma in Trastevere).