La scorsa settimana un nuovo scontro tra uighuri, la minoranza musulmana dello Xinjiang e polizia cinese. Secondo l’emittente Radio Free Asia, i morti negli scontri, vicino a Turpan, sarebbero 46. I media cinesi continuano a riportare invece la cifra di 35 morti, ma la Xinhua, l’agenzia ufficiale in Cina, è l’unico media a controllare la notizia, dato che la zona è completamente chiusa a comunicazioni sia via telefono sia via internet verso l’esterno.
L’episodio che secondo la Cina sarebbe un atto terroristico contro una caserma della polizia cinese, da parte di sedicenti terroristi della minoranza etnica uighura, fa parte dell’ennesima situazione di violenza che si viene a verificare in Xinjiang, regione nord occidentale della Cina, dove vivono 9 milioni di uighuri, minoranza etnica musulmana. Secondo Pechino sono terroristi, secondo la voce del Congresso Mondiale degli uighuri in esilio si tratta di una popolazione che vive invece in una regione dove la presenza di forze di polizia cinese è ai massimi livelli.
C’è un’espressione che in Cina non vuole usare nessuno, ma in Xinjiang, almeno dal 2009 quando una violenta rivolta etnica fece 200 morti, c’è una guerra civile a bassa intensità, con il tentativo di Pechino di eliminare il dissenso e richiedere un riconoscimento internazionale del terrorismo uighuro e la minoranza etnica che cerca di resistere all’isolamento e alla repressione.
I xinjianesi sono noti per i loro ristoranti che offrono gli arrosticini di carne di agnello (i chuan) e perché nelle grandi città cinesi, specie Pechino e Shanghai, non hanno vita semplice. Dai cinesi han l’etnia maggioritaria in Cina, quelli che noi definiamo generalmente come cinesi, gli uighuri sono spesso considerati male: ladri, spacciatori, dediti ai peggiori affari e sotto sotto, separatisti e indipendentisti.

Lo Xinjiang è la regione nord occidentale della Cina a maggioranza musulmana: un luogo affascinante e bizzarro, tra mercati e villaggi, pastorizia e centri cittadini arabeggianti. Non a caso Kashgar in Xinjiang è considerata la culla della civiltà musulmana. La regione è strategica per la Cina, perché confina con otto paesi, tra i quali Mongolia, Russia e India: è uno snodo fondamentale del commercio e di quello che venne definito il “grande gioco”. E proprio per questo la Cina anche a livello internazionale ha provato a muoversi come ha potuto per sconfiggere la resistenza interna, condannando il separatismo uighuro come forma di terrorismo e mettendo il riconoscimento di questo fattore da parte della comunità internazionale, come piatto della bilancia per decisioni di carattere strategico dell’area, come nel caso delle sanzioni alla Siria, in cambio delle quali la Cina ha richiesto più volte il riconoscimento dell’esistenza di un terrorismo internazionale ugihuro.
Il Xinjiang da tempo è considerato uno dei due “problemi interni” della Cina, l’altro è il Tibet. Per ovviare alla potenziale esplosività sociale della zona, Pechino ha provato tutte le carte a sua disposizione. Dapprima ha favorito l’emigrazione di membri della comunità han, che hanno finito per provocare la perdita delle caratteristiche turcofone della regione, trasformando molte città in luoghi senz’anima e dedite al turismo d’accatto e al commercio tipico delle città cinesi. In secondo luogo ha lanciato la campagna “Go West” per favorire anche gli investimenti stranieri in quella zona del paese e utilizzarla sia come luogo turistico, sia per sfruttarne le sue tante risorse e vicinanze geografiche.
Nel 2009 il punto di svolta più recente: una feroce rivolta etnica, con scontri tra han e uighuri in molte zone della regione, ha provocato 200 morti e centinaia di feriti. Per la prima volta Pechino ha utilizzato la chiusura della rete telefonica e di internet come manovra per limitare la possibilità di diffondere informazioni circa quanto stesse avvenendo. Un metodo riproposto in seguito di fronte ad altri scontri e non solo in Xinjiang, in Tibet ad esempio in occasione di auto immolazioni e proteste. Negli ultimi mesi si erano registrati altri due episodi di scontri tra uighuri e polizia, aventi come miccia controlli della polizia cinese in abitazioni di supposti terroristi. Episodi sporadici, che però confermano come i problemi interni della Cina, nonostante la propaganda centrale di Pechino, siano ancora distanti da una soluzione pacifica o armoniosa, come piace dire ai funzionari del Partito comunista Cinese.
La scorsa settimana un nuovo scontro tra uighuri, la minoranza musulmana dello Xinjiang e polizia cinese. Secondo l’emittente Radio Free Asia, i morti negli scontri, vicino a Turpan, sarebbero 46. I media cinesi continuano a riportare invece la cifra di 35 morti, ma la Xinhua, l’agenzia ufficiale in Cina, è l’unico media a controllare la notizia, dato che la zona è completamente chiusa a comunicazioni sia via telefono sia via internet verso l’esterno.