Gli aerei sauditi hanno ripreso a bombardare la capitale dello Yemen, Sana’a, a distanza di cinque mesi dall’ultimo attacco e a pochi giorni dalla rottura delle trattative tra i ribelli sciiti houthi e il governo del presidente Abdu Rabbu Mansour Hadi, cacciato dalla capitale tra 2014 e adesso rifugiato nella seconda città del Paese, Aden, dopo un esilio in Arabia Saudita. I colloqui ospitati dal Kuwait si sono interrotti e i ribelli hanno formato, spalleggiati strumentalmente dall’ex presidente, Ali Abdullah Saleh, un comitato politico, sostituendo quel “comitato rivoluzionario” proclamato dagli houthi all’indomani della conquista di Sana’a.
Il governo Hadi – ex vicepresidente di Saleh, uno dei despoti defenestrati dalla primavera araba- è considerato l’unico esecutivo legittimo dalla comunità internazionale ed ha il sostegno militare della coalizione sunnita, guidata dall’Arabia, che nel marzo 2015 ha lanciato l’operazione Restoring Hope per riportare al potere il presidente. La missione ha consentito al governo di tornare nel Paese, dopo la riconquista di Aden, ma i ribelli controllano ancora la capitale, mentre la terza città per numero di abitanti, Taez, è contesa tra le parti e sia al Qaeda che lo Stato Islamico continuano ad essere una spada di Damocle sulla futura stabilità yemenità.
Le armi hanno ripreso campo dopo il fallimento della diplomazia, il terzo negli ultimi mesi, ma è vero che neppure la potenza di fuoco dei sauditi, accompagnata dagli sforzi di altri Paesi, tra cui Emirati, Egitto, Bahrein e Sudan, è riuscita in più di un anno a sconfiggere i ribelli. Il Paese è diviso sostanzialmente in due: il Nord e l’Est sono in mano agli sciiti, il Sud e l’Ovest ai sunniti. La coalizione guidata da Riad si sta avvicinando alla capitale, ma una battaglia porta a porta sarebbe sanguinosa e dispendiosa, e comunque gli houthi manterrebbero il controllo della loro tradizionale roccaforte settentrionale, al confine con la stessa Arabia, dove negli ultimi tempi si sono intensificati gli scontri e sono diventati più frequenti i lanci di missili in territorio saudita.
Quella in Yemen è una guerra a bassa intensità mediatica, eppure le vittime sono più di seimila – con quasi tre milioni di sfollati interni, in un Paese di per sé già poverissimo – ed un recente report delle Nazioni Uniti ha parlato di violazioni dei diritti umani da parte di entrambi i fronti, coi sauditi che bombardano regolarmente la popolazione e gli houthi che utilizzano i civili come scudi umani. Medici Senza Frontiere ha accusato più volte l’Arabia di avere colpito i propri ospedali. Metà delle vittime del conflitto sono civili.
La risoluzione 2216 dell’Onu reclama il ritorno al potere di Hadi e la restituzione delle armi da parte dei ribelli, ma gli houthi chiedono che si formi prima un governo di unità nazionale. Hadi rifiuta una simile prospettiva e le trattative sinora si sono arenate su questo punto.
La Russia, dopo essersi astenuta sulla 2216, si è opposta ad una dichiarazione che condannava il comitato politico istituito dagli sciiti (anche se sabato il Parlamento che avrebbe dovuto conferirgli legittimità non è riuscito a riunirsi per mancanza del quorum). Gli Stati Uniti, che non considerano lo Yemen così strategico, e si preoccupano soprattutto della presenza nel Paese di al-Qaeda e dello Stato Islamico, hanno sostanzialmente lasciato carta bianca ai sauditi, i quali hanno interpretato il conflitto yemenita secondo la tradizionale linea di demarcazione sunniti versus sciiti, accusando l’Iran di essere la longa manus degli houthi (un fatto vero solo in parte).
Al Qaeda ha perso terreno nel Sud – dopo la città portuale di Mukalla, anche quella di Azzan, nelle provincia di Shabwa – ma resta una minaccia, e la guerra tra governo e ribelli sembra non avere via d’uscita. L’Arabia Saudita, come ha scritto su al Monitor l’esperto di sicurezza Bruce Riedel, si trova adesso ad un punto di svolta. Deve insomma decidere se puntare sull’escalation militare od accettare la divisione di fatto del Paese.
Il conflitto è piuttosto costoso per le finanze del regno, soprattutto in era di petrolio ai minimi (l’anno scorso solo Usa e Cina hanno speso di più dei sauditi per la difesa). Alcuni commentatori hanno suggerito ai Saud di concordare una partizione dello Yemen: uno Stato sciita a Nord, uno sunnita a Sud, che non solo entrerebbe a far parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo, ma controllerebbe il cruciale stretto di Bab el-Mandeb, strategico dal punto di vista geopolitico, nonché commerciale (congiunge il Mar Rosso con il Golfo di Aden, e quindi con l’Oceano Indiano).
La scelta più facile, scrive l’esperto, è quella di non scegliere, rifiutando il governo di unità nazionale ed enfatizzando il sostegno dell’Iran agli houthi, per rafforzare il consenso interno e giustificare le spese esterne. L’architetto della guerra, il giovane ed ambizioso ministro della Difesa, Mohammed bin Salman, ha ridotto la sua esposizione mediatica sullo Yemen e ci si chiede se in qualche cassetto di Riad si nasconda un piano B. Una cosa è certa, secondo Riedel: mentre i Paesi ricchi del mondo arabo bombardano quello più povero di tutti, il mondo è in tutt’altre faccende affaccendato.
Gli aerei sauditi hanno ripreso a bombardare la capitale dello Yemen, Sana’a, a distanza di cinque mesi dall’ultimo attacco e a pochi giorni dalla rottura delle trattative tra i ribelli sciiti houthi e il governo del presidente Abdu Rabbu Mansour Hadi, cacciato dalla capitale tra 2014 e adesso rifugiato nella seconda città del Paese, Aden, dopo un esilio in Arabia Saudita. I colloqui ospitati dal Kuwait si sono interrotti e i ribelli hanno formato, spalleggiati strumentalmente dall’ex presidente, Ali Abdullah Saleh, un comitato politico, sostituendo quel “comitato rivoluzionario” proclamato dagli houthi all’indomani della conquista di Sana’a.