Sono i primi di ottobre ed è vigilia di elezioni in Brasile. Proprio come 24 anni fa, quando morirono 111 detenuti del carcere del Carandiru in seguito alla repressione violenta della polizia di San Paolo. La cifra della ricorrenza non è tonda, ma è una delle più significative degli ultimi anni. Il motivo risiede nella recente sentenza della Corte d’Appello: «Non fu un massacro, ma legittima difesa». E così i 74 poliziotti condannati nelle sentenze precedenti sono stati assolti. Si è passati da un estremo all’altro. Nelle fase precedenti del processo erano state emesse condanne che prevedevano da 48 a 624 anni di reclusione per i colpevoli. In totale, 21.000 anni di carcere da scontare. Da 21.000 a zero, e 24 anni dopo nessuno è stato condannato per l’evento che il 2 ottobre del 1992 sconvolse il Brasile e il Mondo.
Non è facile ricostruire l’intricata storia del Carandiru, ma è possibile accennare alle proporzioni della tragedia. Tutto cominciò con una discussione fra i detenuti del Padiglione 9, dove si trovavano i cosiddetti “primários”, ovvero coloro che erano in carcere per la prima volta nella loro vita. «Non esistevano distinzioni fra condannati e persone in attesa di giudizio. Erano tutti nella stessa ala», spiega Marcus, guida del Museo Penitenziario Paulista, che oggi sorge vicino alla vecchia casa di detenzione. Le ricostruzioni vogliono che il casus belli fu l’uso di uno stendino. Un detenuto avrebbe steso i propri panni nel posto occupato da un altro, innescando una rissa. La situazione sarebbe poi degenerata, rendendo necessario l’intervento delle forze armate. Alla fine della giornata morirono 111 detenuti e un poliziotto. La polizia sostiene di essere stata attaccata con lancio di siringhe (era forte l’incidenza di Aids), urina, feci e minacciati con coltelli. Diverse associazioni di diritti umani sostengono, invece, che la ribellione era cessata e tutti erano rientrati nelle celle senza armi. Le perizie confermerebbero la teoria di un’esecuzione: 515 proiettili sparati. Il 90,4% delle vittime fu colpito alla testa o al collo, mentre l’86% avrebbe ricevuto 3 o più colpi di arma da fuoco. Centotrenta furono i detenuti feriti, 23 i poliziotti. Il giorno dopo le autorità divulgarono un primo bilancio: solo 8 morti. Era vigilia d’elezioni e non si poteva dire la verità sull’accaduto. E quest’anno – come nel 1992 – i cittadini sono chiamati alle urne. Il 2 ottobre a San Paolo si vota per il Sindaco, e così la manifestazione in memoria delle vittime è stata posticipata al 6 ottobre. «Se l’avessimo fatta il 2, nello stesso giorno del voto, sarebbe stato alto il rischio di arresti fra i partecipanti. Sono proibite manifestazioni politiche. Noi non siamo di nessun partito, ma c’era il rischio di strumentalizzazione e di arresti», spiega Helder, uno degli attivisti.
Anni fa esisteva la «Rede 2 de outubro», mentre oggi l’organizzazione degli atti in memoria del Carandiru è affidata a diversi collettivi che per prepararsi all’atto indicono una raccolta fondi. L’intenzione è mettere un po’ di musica, vendere da mangiare, da bere e qualche maglietta per finanziare il viaggio dei parenti delle vittime. Gli organizzatori vorrebbero inoltre far partecipare l’associazione delle “Mamme di maggio”. Nel 2006, circa 600 civili furono uccisi nello stato di San Paolo, secondo molti per mano della polizia. Le “Mamme” tengono viva la memoria dei famigerati “crimini di maggio”. A prescindere dai 24 anni trascorsi, il feeling con la polizia non è dei migliori. Sul luogo della manifestazione compare la “Guarda Civil” insieme alla “Policia Militar”. Occupazione di suolo pubblico, volume troppo alto, vendita ambulante e allaccio abusivo alla rete elettrica. Queste sono le accuse che la polizia contesta ai manifestanti. «Dicono di non avere un responsabile. Come si sono organizzati allora?», s’interroga un poliziotto. I ragazzi dei vari collettivi non hanno grande piacere a essere identificati. Dopo una breve mediazione, però, si stabilisce che la raccolta fondi può proseguire. «Non ci addolora il fatto che siano stati assolti i poliziotti, ma che un genocidio di stato sia stato giudicato come legittima difesa», puntualizza Sérgio, mentre cerca di domare il gazebo della manifestazione contro il vento.
Del vecchio carcere del Carandiru non c’è quasi più traccia. La maggior parte della struttura è stata demolita nel 2002. Sono rimasti in piedi solo il Padiglione 4 e il 7, trasformati in scuole d’avviamento professionale. Lì, dove molti scontavano le pene, oggi s’insegnano arte e design. È stato aperto un grande parco con una biblioteca per i ragazzi della zona nord paulista. Al fondo del viale c’è un piccolo Museo per conservare viva la memoria del penitenziario. Una contraddizione in tipico stile brasiliano: nessun colpevole per 111 morti, ma un’intera struttura per non dimenticare l’accaduto. A volte la memoria storica sa essere più rapida della giustizia. «Il carcere è il luogo della tortura e del castigo. E oggi la tortura è passata dal livello fisico a quello psicologico. In tutto il Brasile esistono celle di tortura come quelle del Carandiru», spiega Padre Valdir João Silveira, coordinatore nazionale della Pastoral Carcerária, un’associazione che offre assistenza morale, religiosa e materiale ai detenuti.
Al Museo è possibile sperimentare l’esperienza delle celle punitive. «Il tempo di permanenza è di 30 giorni. Una doccia alla settimana», spiega la guida Marcus prima di chiudere la porta. All’interno esiste una feritoia minuscola per l’ossigeno, non è possibile distendersi e non ci sono materassi. La serratura si chiude solo con un movimento violento; la permanenza, seppur per 5 minuti, non è per nulla gradevole. «Il Brasile ha una storia di educazione punitiva. La storia del Paese è fatta di schiavitù e castigo. Noi visitiamo tanti condannati e la cosa curiosa è che loro sono i primi ad essere favorevoli alla pena di morte», racconta Padre Valdir nel suo ufficio.
Secondo gli ultimi dati diffusi dal Ministero della Giustizia, in Brasile ci sono 622.202 detenuti. Il 55% è di età compresa fra 18 e 29 anni, il 61,6% è di colore e il 75,08% non ha terminato la scuola dell’obbligo. È la quarta popolazione carceraria al Mondo, solamente dietro USA (2.217.000), Cina (1.657.812) e Russia (644.237). Il 40% dei detenuti brasiliani non è stato ancora condannato in primo grado. E intanto la sentenza stride con il celere avanzamento della Lava-Jato, l’operazione anti-corruzione che sta mandando in galera politici e imprenditori di alto livello. Arresti domiciliari, collaborazioni di giustizia e tempi record. La Lava-Jato procede spedita, mentre sul Carandiru non si riesce ad arrivare a una conclusione. «Perlomeno la popolazione sta cominciando a criticare il potere giudiziario, il più corporativista del Paese. E alla stampa non interessa nulla. Sono veicoli di comunicazione nati sotto l’ombra della dittatura e continuano a servire il potere politico», accusa Padre Valdir con la tranquillità di chi ha combattuto già tante battaglie ma non si è ancora rassegnato. Sono i primi di ottobre ed è tempo di elezioni. Proprio come 24 anni fa.
Non è facile ricostruire l’intricata storia del Carandiru, ma è possibile accennare alle proporzioni della tragedia. Tutto cominciò con una discussione fra i detenuti del Padiglione 9, dove si trovavano i cosiddetti “primários”, ovvero coloro che erano in carcere per la prima volta nella loro vita. «Non esistevano distinzioni fra condannati e persone in attesa di giudizio. Erano tutti nella stessa ala», spiega Marcus, guida del Museo Penitenziario Paulista, che oggi sorge vicino alla vecchia casa di detenzione. Le ricostruzioni vogliono che il casus belli fu l’uso di uno stendino. Un detenuto avrebbe steso i propri panni nel posto occupato da un altro, innescando una rissa. La situazione sarebbe poi degenerata, rendendo necessario l’intervento delle forze armate. Alla fine della giornata morirono 111 detenuti e un poliziotto. La polizia sostiene di essere stata attaccata con lancio di siringhe (era forte l’incidenza di Aids), urina, feci e minacciati con coltelli. Diverse associazioni di diritti umani sostengono, invece, che la ribellione era cessata e tutti erano rientrati nelle celle senza armi. Le perizie confermerebbero la teoria di un’esecuzione: 515 proiettili sparati. Il 90,4% delle vittime fu colpito alla testa o al collo, mentre l’86% avrebbe ricevuto 3 o più colpi di arma da fuoco. Centotrenta furono i detenuti feriti, 23 i poliziotti. Il giorno dopo le autorità divulgarono un primo bilancio: solo 8 morti. Era vigilia d’elezioni e non si poteva dire la verità sull’accaduto. E quest’anno – come nel 1992 – i cittadini sono chiamati alle urne. Il 2 ottobre a San Paolo si vota per il Sindaco, e così la manifestazione in memoria delle vittime è stata posticipata al 6 ottobre. «Se l’avessimo fatta il 2, nello stesso giorno del voto, sarebbe stato alto il rischio di arresti fra i partecipanti. Sono proibite manifestazioni politiche. Noi non siamo di nessun partito, ma c’era il rischio di strumentalizzazione e di arresti», spiega Helder, uno degli attivisti.