Shinzō Abe puntava molto su Yūko Obuchi. Eletta a poco meno di 40 anni a un seggio in Camera bassa doveva essere il volto “pubblicitario” del governo di Tokyo, colei che avrebbe dovuto annunciare con la sua faccia sbarazzina la riattivazione delle centrali nucleari del Paese.
Il 20 ottobre scorso sono però arrivate le sue dimissioni. «Non voglio che le politiche economiche ed energetiche del Paese si fermino a causa dei miei problemi personali», ha spiegato Obuchi in conferenza stampa aggiungendo un emblematico: «Non posso cavarmela con un semplice “non sapevo”».
Su di lei pesano infatti accuse di uso illecito di fondi elettorali: alle elezioni del 2012, uno dei gruppi che sostenevano la sua candidatura avrebbe pagato viaggio e ingressi a teatro ad alcuni sostenitori della sua circoscrizione.
E la legge elettorale vieta ai candidati di fare donazioni in denaro o in altre forme di valore monetario. Anche se sono semplici ventaglietti da qualche centesimo di euro.
La legge sarà pure severa e cavillosa, ma è pur sempre la legge. E se viene infranta qualcuno deve assumersene la responsabilità. Qualcuno ci deve mettere la faccia e una lettera di dimissioni.
L’antropologa americana Ruth Benedict definì nel 1946 quella giapponese una «cultura della vergogna». Il senso di vergogna sarebbe instillato nei giapponesi fin da bambini per rafforzare le strutture di controllo sociale.
Il lavoro di Benedict è stato criticato per il suo essenzialismo e le sue pecche di metodo, ma ebbe un forte impatto, anche in Giappone. Negli anni, quello che doveva essere uno studio del “nemico” numero uno degli Usa ha iniziato a essere citato in tutti i discorsi sull’unicità del popolo giapponese, in cui, proverbialmente, il gruppo viene prima dell’individuo.
Dimostrare al proprio gruppo di appartenenza di essere in grado di provare vergogna per ciò che si è fatto di illegale, o di ciò di cui si è accusati, conta. Anche ai fini della carriera. Certo, c’è qualcuno che esagera un po’, ma che alla peggio diventa un fenomeno internettaro.
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Obuchi era una scelta mirata dell’uomo al comando, Shinzō Abe, che , poco meno di due mesi fa – il 3 settembre, giorno del rimpasto di governo – la mette a capo del Ministero dell’ Economia, del Commercio e dell’Industria (METI, erede del potente MITI, che nel dopoguerra fu l’artefice del miracolo economico giapponese).
«Le donne sono la risorsa meno sfruttata del Giappone», aveva detto Abe qualche tempo fa. Certo, la scelta lessicale non proprio felicissima – «risorsa», «sfruttata» – potrebbe far sorgere alcuni dubbi sull’idea di donna del primo ministro conservatore, uno venuto su a pane e tradizione.
Sta di fatto che Obuchi era il testimonial perfetto per l’inizio di un nuovo periodo per le donne in una società ancora fortemente maschilista. Figlia di Keizō, un ex primo ministro, Yūko, madre di due bambini, look da donna in carriera, godeva di un tasso di apprezzamento e di un pedigree tale da far scrivere a qualcuno che la futura leader del Paese del Sol Levante sarebbe stata lei.
Abe stesso seppe quando mostrare pubblicamente “vergogna” e dimettersi per ciò che non era riuscito a fare al suo primo incarico da primo ministro nel 2007. È bastato aspettare un po’ e ripensare i propri slogan politici.
Forse non era ancora il momento per un ministro così giovane e inesperto in un posto chiave per il futuro del Paese del Sol Levante. Forse, tra qualche anno, lo scandalo sulla cattiva gestione dei fondi elettorali sarà dimenticato. E c’è da credere che allora Yūko potrà tornare la “principessa” della politica nipponica.