L’esperimento della Rojava, la regione del nord della Siria che i curdi hanno proclamato autonoma e difeso strenuamente contro diversi nemici dallo scoppio della guerra civile nel Paese, suscita spesso una fascinazione quasi romantica. La Costituzione (“Carta del Contratto Sociale”) che hanno proclamato è laica, democratica, multipartitica, multietnica, federalista e prevede – tra le altre cose – il rispetto dei diritti umani, dell’ambiente e della parità di genere.
Nei territori della Rojava convivono curdi, arabi, turcomanni, ceceni, assiri e armeni. Nelle milizie armate (Ypg) le donne combattono al fianco degli uomini e questo, in una guerra contro i fanatici islamici del Califfato islamico, ha un impatto psicologico ancor più forte. Al di là degli ideali e della seduzione libertaria che Rojava incarna, tuttavia, c’è un dato di fatto innegabile: qui lo Stato Islamico sta incontrando le maggiori difficoltà. Qui – contrariamente a quanto successo già in Iraq e nel centro della Siria – invece di avanzare il Califfato indietreggia, e le milizie curde sono decisamente più efficaci dell’esercito regolare iracheno o siriano, e probabilmente anche dei bombardamenti mirati della Coalizione anti-Isis a guida Usa. Nelle ultime settimane in particolare l’Ypg ha conquistato diverse aree importanti al confine con la Turchia, sottraendole agli uomini in nero del Califfo Al Baghdadi. In particolare la recente vittoria dei curdi a Tel Abyad potrebbe essere un punto di svolta per il quadro strategico della Siria nel suo complesso, e per le sorti dello Stato Islamico nel Paese.
Tel Abyad è il valico di frontiera con la Turchia da dove – con la complicità di Ankara, che negli ultimi anni ha utilizzato qualsiasi mezzo, Isis incluso, nel tentativo di abbattere Assad in Siria e di contenere le spinte autonomiste curde – lo Stato Islamico faceva passare foreign fighters, armi, rifornimenti, e da cui transitavano merci e petrolio per finanziare le casse del Califfo. Ora per gli uomini in nero la via è chiusa. Le linee di rifornimento si dovranno probabilmente spostare di centinaia di chilometri con ripercussioni pesanti sulla situazione tattica sul terreno. La conquista di Tel Abyad è poi fondamentale per i curdi in quanto adesso il territorio sotto il loro controllo va da Afrin – a nord di Aleppo – , passa per Kobane (città simbolo della causa curda, uscita vittoriosa da mesi di assedio dell’Isis) e arriva fino al confine con l’area curda dell’Iraq governata da Barzani e presidiata dai Peshmerga (le milizie curde irachene), senza soluzione di continuità, mentre prima era diviso in due tronconi. Infine, altra caratteristica centrale di Tel Abyad è la sua vicinanza alla città di Raqqa, la capitale dello Stato Islamico in Siria: appena un’ora e mezza di macchina.
La vittoria delle truppe curde – supportate anche da fazioni arabe che un tempo appartenevano al Free Syrian Army, ma che dai tempi dell’assedio di Kobane combattono insieme al Ypg sotto il nome di “Burkan el Firat”, cioè “Vulcano dell’Eufrate” – è arrivata dopo settimane di logoramento dei punti di appoggio dell’Isis, in particolare le cittadine di Mebruka e Suluk. Ora alla Turchia rimane solo un piccolo tratto di confine con la Siria – vicino a Iskenderun, la antica Alessandretta – da cui far passare eventuali aiuti allo Stato Islamico. Ma qui potrebbe arrivare un’altra notizia negativa per il Califfato: le pressioni americane su Erdogan e l’esito delle elezioni turche che hanno tolto la maggioranza assoluta al partito del presidente (e anzi premiato il partito filo-curdo Hdp) potrebbero indurre Ankara quantomeno ad una maggior prudenza. Privato di rifornimenti, con il proprio alleato de facto (Turchia di Erdogan) costretto sulle difensive e con la propria capitale minacciata da vicino, lo Stato Islamico in Siria è sicuramente entrato in una fase di difficoltà dopo la simbolica e strategica conquista di Palmira. Anche nel resto del Paese sta subendo la controffensiva del governo di Assad – di recente, si dice, rafforzato da una ingente iniezione di uomini da parte dell’Iran – e nelle zone di confine col Libano (l’area montuosa del Qalamun) è sotto attacco da parte delle milizie di Hezbollah.
Tuttavia sarebbe assurdo dare per spacciato il Califfato in Siria. I curdi, abilissimi a combattere nel proprio territorio anche grazie al supporto della popolazione locale, non possono da soli sperare di avanzare più che tanto nelle aree a maggioranza araba. La Siria è poi un calderone in cui si mescolano centinaia di fazioni combattenti. Oltre all’Isis, ai curdi e alle forze governative, esistono guerriglieri legati ad Al Qaeda, altri moderati, altri ancora laici. Spesso rispondo agli interessi dei loro sponsor internazionali e quindi le alleanze tra queste forze sono in costante evoluzione. Di recente ad esempio – grazie all’aiuto e al coordinamento di Turchia, Arabia Saudita e Qatar – si è formata una coalizione di sigle islamiste (“Esercito della Vittoria”, di cui fa parte la qaedista Al Nusra) che fino a poco prima erano in lotta tra loro e ha iniziato a macinare vittorie contro il governo nella provincia di Idlib (nord del Paese). Tutto può sempre cambiare da un momento all’altro.
La vera forza del Califfato in Siria resta comunque la totale porosità del confine con l’Iraq, dove i suoi uomini controllano importanti città (Mosul, su tutte), hanno armamenti pesanti e risorse petrolifere. Nell’area desertica che collega la provincia irachena di Anbar con l’area di Deir az Zor in Siria le truppe dell’Isis sono libere di muoversi senza grossi rischi. Se un domani Raqqa fosse in pericolo, gli aiuti per il Califfato in Siria potrebbero arrivare da qui. Questa interconnessione tra due Paesi – i cui confini oramai esistono solo sulla carta – rende particolarmente importante per lo scenario siriano l’eventuale riuscita dell’operazione militare, ad ora in fase di stallo, con cui il governo iracheno sta cercando di riconquistare la provincia di Anbar e la città di Ramadi . Forse non cambierà le sorti della regione nel complesso – ancora dilaniata da troppe spinte in troppe direzioni – ma, almeno per il consolidamento definitivo della Rojava, potrebbe essere determinante.
@TommasoCanetta
L’esperimento della Rojava, la regione del nord della Siria che i curdi hanno proclamato autonoma e difeso strenuamente contro diversi nemici dallo scoppio della guerra civile nel Paese, suscita spesso una fascinazione quasi romantica. La Costituzione (“Carta del Contratto Sociale”) che hanno proclamato è laica, democratica, multipartitica, multietnica, federalista e prevede – tra le altre cose – il rispetto dei diritti umani, dell’ambiente e della parità di genere.
Nei territori della Rojava convivono curdi, arabi, turcomanni, ceceni, assiri e armeni. Nelle milizie armate (Ypg) le donne combattono al fianco degli uomini e questo, in una guerra contro i fanatici islamici del Califfato islamico, ha un impatto psicologico ancor più forte. Al di là degli ideali e della seduzione libertaria che Rojava incarna, tuttavia, c’è un dato di fatto innegabile: qui lo Stato Islamico sta incontrando le maggiori difficoltà. Qui – contrariamente a quanto successo già in Iraq e nel centro della Siria – invece di avanzare il Califfato indietreggia, e le milizie curde sono decisamente più efficaci dell’esercito regolare iracheno o siriano, e probabilmente anche dei bombardamenti mirati della Coalizione anti-Isis a guida Usa. Nelle ultime settimane in particolare l’Ypg ha conquistato diverse aree importanti al confine con la Turchia, sottraendole agli uomini in nero del Califfo Al Baghdadi. In particolare la recente vittoria dei curdi a Tel Abyad potrebbe essere un punto di svolta per il quadro strategico della Siria nel suo complesso, e per le sorti dello Stato Islamico nel Paese.