Lo scorso 26 giugno il terrorismo islamico ha colpito duramente in Asia, in Africa e in Europa.
In Kuwait un kamikaze, un saudita pare affiliato a una cellula jihadista collegata con l’Isis, si è fatto esplodere in una moschea sciita causando una trentina di morti tra i fedeli raccolti per la preghiera del venerdì. In Somalia un commando di Shebab – miliziani delle corti Islamiche, che di recente hanno esplicitato la loro alleanza con lo Stato Islamico – ha attaccato una base militare dell’Unione Africana, distante appena 100 km da Mogadiscio, con kamikaze e lanciagranate. I morti sarebbero oltre cinquanta, tutti militari del Burundi. In Tunisia un estremista legato a gruppi salafiti ha trucidato a colpi di mitra 37 turisti occidentali sulla spiaggia di Port El Kantauoi. Il suo gesto è stato poi rivendicato dall’Isis. Infine vicino a Lione un terrorista solitario, nato in Francia da genitori maghrebini, ha prima decapitato il capo dello stabilimento di gas industriale dove lavorava come autista, e poi ha provato a far esplodere gli impianti, ma senza successo. Sul luogo del delitto è stata anche trovata una bandiera nera che parrebbe ricondurlo allo Stato Islamico.
L’insieme di questa notizie tragiche ha prodotto un grande effetto sui media e sulle opinioni pubbliche occidentali. Da un lato alcuni politici e alcune testate non hanno esitato a spargere ansie e paure per l’imminente scontro tra la civiltà europea e questo nuovo mostro del terrorismo con decine di teste ma un unico corpo. Dall’altro si sono diffuse teorie ottimistiche, secondo cui questi attentati sarebbero la risposta del Califfato al momento di difficoltà che sta attraversando in Siria (e, anche se meno, in Iraq): non potendo più contrastare sul terreno l’avanzata dei suoi nemici, porta avanti le sue ritorsioni in modo non convenzionale all’estero, rivelando però così uno stato di debolezza. Il problema è che è molto difficile stabilire quali collegamenti, e quanto intensi, ci siano tra gli attentati. Nonché quanto questi siano collegati alla situazione dello Stato Islamico a cavallo tra Siria e Iraq.
Sicuramente l’Isis è in un momento di debolezza a livello militare. L’offensiva dei curdi del Ypg gli ha tagliato le più importanti vie di rifornimento dalla Turchia e la sua capitale siriana, Raqqa, è oramai pericolosamente vicina alla linea del fronte. In questo scenario si può inquadrare l’azione di alcune decine di uomini del Califfo a Kobane – che ha portato alla morte di oltre 200 persone, quasi tutti civili, molte donne e bambini – come una risposta direttamente collegata alle difficoltà sul campo. Il terrorismo – perché di questo si è trattato, non di un’azione militare – ha sicuramente lo scopo di alleggerire la pressione su Raqqa e di segnare un punto nella guerra di propaganda. Ma per le azioni lontane dal territorio del Califfato il discorso è molto diverso.
Difficile ipotizzare che il Califfo Al Baghdadi e il suo stato maggiore abbiano deciso, per rispondere alle difficoltà in patria, di allertare una serie di cellule dormienti all’estero per scatenare il panico in tre diversi continenti. Finora non ci sono elementi per ipotizzarlo. Più probabilmente i media dell’organizzazione terrorista hanno lanciato un ordine generale sul web di attaccare e fare stragi durante il Ramadam (il mese sacro per gli islamici), e il venerdì – giorno della preghiera – è il momento più propizio. «In Francia quasi sicuramente si tratta di un lupo solitario, un fanatico isolato che si estremizza in Occidente e che a un certo punto raccoglie l’invito (che arriva da siti internet jihadisti) a compiere un attentato, anche di piccolo calibro, contro obiettivi civili europei», spiega Claudio Neri, direttore dell’Istituto italiano di studi strategici. «Da tempo questa è la strategia dell’Isis: non potendo architettare attentati in grande stile sul suolo occidentale – come invece faceva Al Qaeda, me le nostre intelligence sono diventate esperte nel prevenire che succeda – si affida all’azione di singoli, imprevedibili, che possono lanciarsi con l’auto sui passanti, accoltellare un poliziotto, fare strage in una redazione, sparare sul parlamento e via dicendo».
Più probabile che una qualche forma di coordinamento – ma, di nuovo, difficile stabilire quanto intensa – ci sia stata per gli attentati in Tunisia, Somalia e Kuwait. «Si potrebbe ipotizzare che esista una rete di ex commilitoni della guerra siriana che ora sono sparsi in diverse cellule in diversi Paesi, e che sono in grado di coordinarsi direttamente tra loro», dice ancora Neri. «Tuttavia mi sembra l’opzione meno realistica. Personalmente credo che l’Isis abbia fatto passare attraverso i suoi canali la parola d’ordine di attaccare durante il Ramadam e che vari gruppi locali abbiano aderito. Dico questo perché le sigle jihadiste locali spesso hanno agende proprie, e quindi non vogliono “padrini” a cui dover rendere conto direttamente. Inoltre sono sempre in competizione tra loro per avere la maggiore visibilità possibile, quini se dal Califfato si segnala un momento buono per gli attentati questi hanno tutto l’interesse a rispondere. Ma l’Isis è, e credo resti, un “brand”, come anche Al Qaeda in precedenza».
La peculiarità dello Stato Islamico rispetto ad Al Qaeda, almeno la più evidente, è quella di avere uno Stato territoriale (l’ospitalità che i Talebani afghani riservarono a Bin Laden fino al 2001 non è paragonabile). Questo catalizza combattenti e jihadisti da mezzo mondo, offre un luogo dove addestrarli e metterli in contatto tra loro, consente rifornimenti economici e militari. Sradicarlo come Stato non sarebbe difficile da un punto di vista bellico, ma è praticamente impossibile al momento da un punto di vista politico. Troppi attori (Sauditi, Iran, Turchia e Qatar in primis) hanno interessi divergenti o collidenti, e spesso ad avvantaggiarsene è proprio il Califfato. L’Occidente in compenso finora non ha dimostrato sufficiente forza e determinazione per agire in modo efficace, spaventato dalle possibili ripercussioni di un intervento terrestre su uno scenario regionale che è già caotico e che rischierebbe di degenerare ulteriormente. Il prezzo di questo stallo è evidente: foreign fighters e simpatizzanti dell’Isis possono sempre colpire, anche in Europa. Ma forse, prima di ipotizzare azioni drastiche, vale anche la pena ricordare che sommando tutte le vittime degli attentati di venerdì 26 non si arriva ai morti dell’ultimo attentato jihadista a Kobane.
Lo scorso 26 giugno il terrorismo islamico ha colpito duramente in Asia, in Africa e in Europa.
In Kuwait un kamikaze, un saudita pare affiliato a una cellula jihadista collegata con l’Isis, si è fatto esplodere in una moschea sciita causando una trentina di morti tra i fedeli raccolti per la preghiera del venerdì. In Somalia un commando di Shebab – miliziani delle corti Islamiche, che di recente hanno esplicitato la loro alleanza con lo Stato Islamico – ha attaccato una base militare dell’Unione Africana, distante appena 100 km da Mogadiscio, con kamikaze e lanciagranate. I morti sarebbero oltre cinquanta, tutti militari del Burundi. In Tunisia un estremista legato a gruppi salafiti ha trucidato a colpi di mitra 37 turisti occidentali sulla spiaggia di Port El Kantauoi. Il suo gesto è stato poi rivendicato dall’Isis. Infine vicino a Lione un terrorista solitario, nato in Francia da genitori maghrebini, ha prima decapitato il capo dello stabilimento di gas industriale dove lavorava come autista, e poi ha provato a far esplodere gli impianti, ma senza successo. Sul luogo del delitto è stata anche trovata una bandiera nera che parrebbe ricondurlo allo Stato Islamico.