Le speranze dei ribelli siriani di sconfiggere Assad sono ridotte al lumicino. Dopo i successi di primavera, in particolare della coalizione di sigle ribelli islamiste Jaish al Fatah (tra cui l’affiliata di Al Qaeda, Jabhat al Nousra) nata grazie al coordinamento ed al finanziamento di Turchia, Qatar e Arabia Saudita, il regime sembrava in grave difficoltà.
Sia ad Aleppo (la seconda città del Paese), sia nello snodo strategico di Idlib le truppe lealiste erano state costrette ad arretrare, subendo pesanti sconfitte, le risorse del governo di Damasco – economiche, ma anche in termini di soldati impiegabili – si erano drasticamente ridotte e la coesione interna del potere alawita cominciava a dare segni di cedimento. Poi il vento è cambiato, in Siria ma anche a Vienna, dove l’Iran – finanziatore e protettore di Assad – grazie al raggiungimento dell’accordo sul nucleare potrebbe aver ottenuto accesso a risorse, finora congelate dalle sanzioni, per 100 miliardi di dollari.
Sul terreno le forze di Assad si muovono ora in un contesto tattico divenuto favorevole. Combattono contro, semplificando, due nemici: i ribelli siriani (dove, accanto al Free Syirian Army, ad oggi predomina Jaish al Fatah) e lo Stato Islamico. Grazie alle presenza di quest’ultimo si sono progressivamente affiancati a Damasco, oltre al “padrino” sciita iraniano e alla milizia libanese Hezbollah, altri inaspettati alleati. I curdi del Ypg, infatti, che sono al momento la forza militare che maggiormente si oppone al Califfato in Siria, ha – per convenienza e per necessità – una alleanza de facto con il regime, e concentra i suoi sforzi contro gli uomini in nero dell’Isis. Di recente, anche grazie all’aiuto delle milizie curde irachene, i Peshmerga, gli uomini del Ypg hanno conquistato la fascia nord della Siria quasi per intero, tagliando le linee di rifornimento dalla Turchia per lo Stato Islamico e mettendone sotto pressione la capitale, Raqqa. E sui curdi si sta scaricando la reazione, terroristica oltre che militare, dell’Isis. Ancora di recente un kamikaze ha fatto strage di giovani volontari socialisti a Suruc, cittadina sul confine turco, che volevano aiutare nella ricostruzione di Kobane.
Oltre ai curdi il regime può ora contare sull’appoggio di un altro gruppo, fino a poco fa rimasto neutrale nella guerra civile: i drusi. Questi sono una minoranza religiosa simile all’islam (ma considerata eretica dalla maggioranza musulmana) e abitano la regione a sud di Damasco, al confine con la Giordania. Dopo il recente massacro di venti civili ad opera di Jabhat al Nousra, i leader religiosi e politici della comunità hanno definitivamente abbandonato le ambiguità e invitato la popolazione drusa ad unirsi alle forze governative, ribaltando così la situazione sul campo. Se fino a quel momento infatti i ribelli avevano trovato terreno per portare un’offensiva da sud contro Damasco, conquistando alcune postazioni strategiche, da lì in poi sono entrati in una fase di stallo e, anzi, hanno poco dopo subito la controffensiva lealista che li ha ricacciati nelle posizioni di partenza.
Il problema del fanatismo islamico all’interno delle fila ribelli ha poi portato, tacitamente ma innegabilmente, anche la coalizione internazionale a guida Usa che combatte l’Isis ad essere un prezioso alleato per Assad. Secondo quanto dichiarato da un ufficiale curdo alla AFP l’aviazione americana e quella di Damasco si coordinano per combattere lo Stato Islamico. E nel momento in cui contro l’Isis combattono a terra soprattutto i curdi e dal cielo soprattutto gli americani (che colpiscono anche obiettivi mirati diversi dall’Isis, di recente un capo qaedista), il regime può limitarsi alla difesa delle proprie roccaforti nelle aree conteste col Califfato e concentrare i propri sforzi contro gli altri ribelli siriani. In questo è supportata da Hezbollah – fondamentale per puntellare il regime nella aree di confine col Libano contro l’offensiva lanciata a primavera soprattutto dagli uomini di al Nousra – e dall’Iran. Secondo recenti rivelazioni poi, a Teheran si sarebbe affiancata in modo più evidente anche Mosca, nel sostenere Assad. È infatti stato abbattuto, questo luglio, un drone russo nei cieli siriani, il che significa che il Cremlino sta, direttamente con propri uomini o avendo venduto la tecnologia a Damasco, aiutando il regime nel raccogliere dati di intelligence militare per meglio contrastare i ribelli.
Nel giro di pochi mesi Assad si è dunque trovato ad avere dalla propria parte – in modo esplicito o meno – non solo i suoi alleati storici (Iran, Hezbollah e Russia), oltretutto rafforzati dal recente accordo sul nucleare raggiunto a Vienna, ma anche gruppi con cui i rapporti erano freddi se non ostili (drusi e curdi) e, soprattutto, la coalizione internazionale anti-Isis a guida americana. Specularmente il fronte che sostiene i ribelli si va indebolendo. La Turchia, finora molto attiva nel finanziare e supportare i ribelli, sembra – secondo il parere di alcuni analisti – che stia cercando di uscire dal vicolo cieco in cui la politica estera del presidente Erdogan l’aveva portata a infilarsi. Il supporto alla Fratellanza Musulmana nel dopo-Primavere arabe si è rivelata una scommessa perdente, e la linea tenuta in Siria “piuttosto che Assad meglio l’Isis” l’ha portata a scontrarsi duramente con gli alleati occidentali, che hanno una visione diametralmente opposta, e a perdere potere negoziale nella questione curda che le sta esplodendo ai confini (l’Ypg è vicino al Pkk, considerato da Ankara organizzazione terroristica, ed ha il controllo politico-militare di una vasta area, la Rojava). Ora, complici le pressioni della comunità internazionale, la Turchia pare che stia adottando una linea più ferma contro gli uomini del Califfato, in particolare controllando il confine e non – questa l’accusa mossa in passato – lasciando passare gli uomini dell’Isis. Non solo. Dopo l’accordo tra 5+1 e Iran, Ankara stima di arrivare in breve tempo a uno scambio commerciale con Teheran intorno ai 35-50 miliardi di dollari. Segnale, secondo alcuni, di un atteggiamento di realpolitik che potrebbe portare nel prossimo futuro a un raffreddamento dell’impegno con cui Erdogan sostiene chi vuole abbattere Assad, alleato di ferro dell’Iran.
Al fronte ribelle rimarrebbe quindi il sostegno dell’Arabia Saudita, la grande sconfitta – al momento – nei rivolgimenti in corso in Medio Oriente. Il suo nemico regionale, l’Iran, grazie all’accordo raggiunto col 5+1 esce dall’isolamento diplomatico ed economico con gravi rischi potenziali per gli interessi di Riad. La risposta saudita potrebbe essere, e secondo molti esperti sarà, un innalzamento del livello di scontro in tutti gli scenari di crisi dell’area: Yemen, Iraq e ovviamente Siria. Armando e finanziando indistintamente le sigle jihaidste sunnite, Riad può sperare di sabotare una vittoria dell’asse sciita, ma non di vincere. Il risultato sarebbe una prosecuzione per un tempo indefinito di una guerra civile a bassa intensità che genera centinaia di migliaia di vittime e milioni di profughi. Ma, ed è questo l’aspetto più pericoloso per la casa reale saudita, tanto più si rafforzano lo Stato Islamico e le componenti qaediste nel fronte sunnita che si oppone all’Iran, tanto più quest’ultimo gode e godrà del sostegno della comunità internazionale. Non si può quindi escludere, questa è la tesi minoritaria tra gli esperti, che l’Arabia Saudita decida di scartare dalla propria posizione per evitare di rimanere schiacciata, e i ribelli siriani siano i primi a pagarne il prezzo.
Le speranze dei ribelli siriani di sconfiggere Assad sono ridotte al lumicino. Dopo i successi di primavera, in particolare della coalizione di sigle ribelli islamiste Jaish al Fatah (tra cui l’affiliata di Al Qaeda, Jabhat al Nousra) nata grazie al coordinamento ed al finanziamento di Turchia, Qatar e Arabia Saudita, il regime sembrava in grave difficoltà.