Non si arresta la scalata della Cina per diventare una super-potenza militare, oltre che economica. Secondo quanto emerge dalle ultime foto satellitari mostrate pochi giorni fa dal Center for Strategic and International Studies di Washington, la Repubblica Popolare avrebbe ulteriormente ampliato le proprie installazioni nell’arcipelago delle isole Spratly, nel Mar Cinese meridionale. Negli ultimi dodici mesi Pechino ha “costruito” sette nuove isole, su cui ha installato basi, porti ed aeroporti. Da ultimo una pista di atterraggio lunga 3 km. Questa capacità tecnica di creare isole artificiali pare abbia colto di sprovvista gli Americani, che nell’Oceano Pacifico puntano a sviluppare i propri interessi nei decenni a venire.
Se le opere di pionierismo ingegneristico dei cinesi sono una novità, non lo è però la disputa internazionale sulle Spratly . Fin dai tempi del colonialismo europeo, ma soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo arcipelago è conteso tra più Stati. Attualmente, oltre alla Cina, avanzano rivendicazioni il Brunei, Taiwan, il Vietnam – che ha oltre venti basi sparse tra le isole -, la Malesia e le Filippine (questi ultimi tre Paesi sono alleati degli Usa). Per decenni si sono susseguite scaramucce e anche crisi più gravi, ma negli ultimi anni Pechino sembra aver premuto decisamente sull’acceleratore. La Cina vuol portare a compimento il sogno della “Grande Muraglia di Sabbia”, cioè un cuscinetto di sicurezza attorno alle proprie coste che farebbe perno su diversi arcipelaghi: Spratly, Paracel (sottratte militarmente al Vietnam nel 1974), Pratas, Macclesfield Bank e Scarborough Shoal. Su tali isole verrebbero collocate diverse Adiz (Air Defence Identification Zone), che consentirebbero a Pechino di controllare qualunque sconfinamento nella zona cuscinetto da parte di navi o aerei stranieri. Si tratta insomma di una linea di demarcazione e di difesa che la Repubblica Popolare vuole costruire intorno a sé. Poco importa se le isole in questione sono molto più lontane dalle coste cinesi (1.100 km) di quanto non lo siano, ad esempio, da quelle filippine (240 km).
«La condotta aggressiva della Cina nasce da un progetto strategico ben definito a Pechino già a metà degli anni ’90: limitare, non potendola eliminare, la proiezione di potenza degli Stati Uniti sul proprio territorio», spiega Claudio Neri, esperto di questioni militari e direttore dell’Istituto italiano di studi strategici. «Con proiezione di potenza intendiamo la capacità di portare attacchi militari in territorio nemico e, escludendo le testate nucleari per cui vale un diverso discorso, al momento gli Stati Uniti sono l’unico Paese in grado di avere – tramite portaerei, navi di appoggio, cargo militari, aviazione etc – una tale proiezione con armi convenzionali sull’intero globo, e di poter negare a qualsiasi altro Stato la proiezione sul suolo americano», prosegue Neri. «La Cina, come dicevo, è da venti anni che sta studiando come limitare la proiezione di potenza americana sul proprio territorio: da un punto di vista tecnologico (ad esempio sviluppando capacità di cyberwarfare o, ancora, testate “anti-satellite”, per “accecare” lo strumento con cui gli Usa hanno la possibilità di individuare e colpire qualsiasi bersaglio sul pianeta), ma anche da un punto di vista geografico. Le pretese di Pechino sulle Spratly si spiegano perfettamente in questo contesto, nascono dal desiderio di aumentare la distanza minima a cui possono avvicinarsi navi o aerei americani (o di altro Paese) senza che la Cina sia in grado di reagire immediatamente».
Ovviamente il valore delle Spratly e degli altri arcipelaghi non è esclusivamente militare. Oltre ad essere – pare – ricchi di risorse naturali, sono punti strategicamente fondamentali per il controllo dei traffici marittimi, commerciali in primis, e Pechino è fortemente interessata a garantirsi una via di approvvigionamento sicura e preferenziale verso il Golfo Persico, da cui ancora dipende – e probabilmente dipenderà anche nei decenni a venire – per i rifornimenti di greggio e gas naturale. Secondo gli analisti americani, ma non solo, il centro del mondo – o quantomeno il centro degli interessi delle superpotenze mondiali – sarà in futuro sempre meno Europa e Medio Oriente e sempre più l’Oceano Pacifico.
«L’amministrazione Obama aveva teorizzato uno spostamento del baricentro di interessi americani verso il Pacifico, e contava anche di aumentare la presenza militare statunitense in quell’area», dice ancora Neri. «Le crisi in Ucraina e nel mondo arabo da un lato e, soprattutto, il rischio di “bandwagoning” – la tendenza cioè a non investire proprie risorse nell’apparato bellico in presenza di un alleato più potente che si fa carico della gestione della sicurezza nell’area ndr. – da parte degli alleati locali dall’altro, hanno però spinto gli Usa a contenere questo previsto dispiegamento dell’apparato bellico. In compenso l’America spronato gli alleati nella regione a investire maggiormente nella propria sicurezza – ad esempio è caduto il veto americano su un riarmo di stampo nazionalista del Giappone, che infatti sta modificando la propria costituzione pacifista nata dopo il secondo conflitto mondiale – per rispondere all’escalation cinese, e li ha ulteriormente rassicurati sull’intenzione di mantenere, e anzi rafforzare, la propria presenza. Non potendo replicare un modello analogo a quello della Nato – considerate la complessità dello scenario asiatico, la sua vastità e la per ora relativa mancanza di una minaccia immediata – gli Usa vorrebbero quindi», conclude Neri «creare un’alleanza (per ora informale) militare, politica ed economica coi propri partners regionali per contenere la Cina. Ad esempio ricade in questo scenario il percorso di approvazione del Transpacific Trade Agreement». La Cina non è l’Unione Sovietica, e per ora l’espansionismo di Pechino sembra limitato e di carattere difensivo. Addirittura la Repubblica Popolare potrebbe avere interesse a entrare nel Transpacific Trade Agreement, secondo una logica del “se non puoi batterli unisciti a loro”. Ma nonostante la momentanea assenza di un grave e immediato pericolo di scontro aperto nella regione, un’arena in cui cozzano gli interessi di Cina, Russia, Stati Uniti, Coree, Australia e Giappone – solo per citare gli attori principali –, e in cui sta crescendo la corsa agli armamenti, viene considerata dagli esperti un fattore di potenziale instabilità nel futuro per l’intero pianeta.
@TommasoCanetta
Se le opere di pionierismo ingegneristico dei cinesi sono una novità, non lo è però la disputa internazionale sulle Spratly . Fin dai tempi del colonialismo europeo, ma soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo arcipelago è conteso tra più Stati. Attualmente, oltre alla Cina, avanzano rivendicazioni il Brunei, Taiwan, il Vietnam – che ha oltre venti basi sparse tra le isole -, la Malesia e le Filippine (questi ultimi tre Paesi sono alleati degli Usa). Per decenni si sono susseguite scaramucce e anche crisi più gravi, ma negli ultimi anni Pechino sembra aver premuto decisamente sull’acceleratore. La Cina vuol portare a compimento il sogno della “Grande Muraglia di Sabbia”, cioè un cuscinetto di sicurezza attorno alle proprie coste che farebbe perno su diversi arcipelaghi: Spratly, Paracel (sottratte militarmente al Vietnam nel 1974), Pratas, Macclesfield Bank e Scarborough Shoal. Su tali isole verrebbero collocate diverse Adiz (Air Defence Identification Zone), che consentirebbero a Pechino di controllare qualunque sconfinamento nella zona cuscinetto da parte di navi o aerei stranieri. Si tratta insomma di una linea di demarcazione e di difesa che la Repubblica Popolare vuole costruire intorno a sé. Poco importa se le isole in questione sono molto più lontane dalle coste cinesi (1.100 km) di quanto non lo siano, ad esempio, da quelle filippine (240 km).